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    BRIAN ENO A ROMA – IN MOSTRA OPERE DI ‘’PITTURA AMBIENTALE’’: “TRATTO I MIEI ALBUM COME DIPINTI E FACCIO PITTURE DI LUCI IN MOVIMENTO CHE DIVENTANO SUONI E NOTE” – ‘’ESSERE ARTISTA È UN ESERCIZIO FILOSOFICO”


     
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    Ernesto Assante per “la Repubblica”

     

    Domani, alla Galleria Valentina Bonomo della capitale, si inaugura “Light Music”, un’installazione di opere sonore e luminose di Brian Eno. È l’ennesimo capitolo di un lavoro che Eno porta avanti da oltre trent’anni, cercando di mettere in relazione l’esperienza visuale, quella musicale e l’ambiente in cui le opere sono ospitate, attraverso la manipolazione del tempo, della luce e del suono.

     

    Questa volta ad essere esposte sono le “Light Box”, strutture quadrangolari, accompagnate da musica, in cui la luce cambia direzione e intensità con combinazioni innumerevoli, senza inizio né fine. E gli Speaker flowers, sculture sonore a forma di fiore, che sono null’altro che piccoli altoparlanti montati su lunghi steli metallici che oscillano in base al suono che emettono.

     

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    E ancora due opere su lenticolare, Center decenter e Tender divisor, delle superfici composte da lenti che danno all’immagine stampata l’illusione della profondità e del movimento, a seconda della posizione di chi guarda.

     

    «Questa è per me un’occasione speciale », dice Eno nel cortile del palazzo che ospita la galleria, nel cuore di Roma, al Portico D’Ottavia. «È solo la seconda volta che metto in vendita le mie opere in una mostra, è una sorta di esperimento per me».

     

    Come è nato questo progetto?

    «È nato dopo l’esperienza che ho fatto con un ospedale inglese, il Montefiore, il primo al mondo a offrire ai pazienti delle installazioni artistiche con l’intento di rendere migliore la loro ospedalizzazione. Ho realizzato Quiet Room for Montefiore, una stanza con un’installazione visiva e sonora per offrire uno spazio dove pensare o rilassarsi, e 77 Million Paintings for Montefiorenell’area della reception. Light music deriva direttamente da queste esperienze ».

     

    Questa installazione arriva più o meno contemporaneamente alla pubblicazione del suo nuovo album, “The Ship”. C’è una relazione diretta tra le due opere?

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    «Nella mia carriera ho sempre lavorato su tutte e due le forme espressive, ma le vedevo come due arti separate. Poi, con l’evoluzione della ambient music che non è narrativa ma è, per così dire, uno “stato costante”, due idee sono affiorate nel mio cervello, fare musica come fosse un dipinto e fare i video come fossero un dipinto. Queste due idee sono diventate sempre più vicine, facevo musica sempre più lenta e simile alla pittura, facevo pitture di luci in un movimento sempre più lento che diventava musica. Adesso è un’area unica ».

     

    Che ha mercati diversi...

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    «Si, c’è una grandissima differenza tra il sistema mercantile della musica e quello dell’arte visiva. Cose come quelle che sono in mostra a Roma sono costose e per poche persone, mentre con gli album realizzi opere poco costose per un gran numero di persone. Non ho alcun problema con nessuna forma di mercato, la gente ama comprare e vendere cose, io mi guadagno da vivere vendendo cose. Questo può creare difficoltà solo a chi fa arte per venderla e non perché vuole farla. Non è il mio caso: io mi alzo ogni mattina e faccio esattamente quello che voglio fare, è una cosa meravigliosa. E se capita che un giorno non sono felice so che è solo colpa mia».

     

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    Quindi “The ship” e l’installazione “Light Music” hanno una relazione diretta. Può spiegarcela?

    « The Ship in origine non doveva essere un album ma un’installazione multicanale realizzata a Stoccolma. Io non ho mai smesso di cantare negli anni, anche se non c’è mai la mia voce nelle cose che ho pubblicato, e ho cantato anche per questo lavoro, che è nella tonalità del “do”. Ho scoperto che cantando in “do” raggiungo una tonalità molto bassa, molto più bassa di quanto io abbia mai cantato. E questo mi ha spinto a fare una cosa che forse avrei dovuto fare già 40 anni fa, mettere insieme ambient music e canto. E l’ho fatto, realizzando canzoni simili a sculture da esplorare. Così sono anche le opere in mostra a Roma, sono opere di pittura ambientale, ambient paintings. Ed è il punto attuale dell’evoluzione del mio lavoro».

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    Un lavoro che tende a creare opere infinite, sempre diverse.

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    «Sì. È stata un’evoluzione graduale. Ho iniziato negli anni Ottanta, facendo opere di videopainting, filmando nubi, luci, momenti in cui non accadeva niente, eventi molto lenti. Poi ho pensato di non usare gli schermi per mostrare l’opera, ma usarli come fonte di luce. Ho cominciato a mettere scatole di carta sopra uno schermo televisivo. Poi ho messo uno strato di vetro opaco e ho ottenuto un’immagine che cambiava continuamente colore. E ho iniziato a lavorare alla realizzazione di opere autogenerate che avessero una combinazione immensa di proiezioni, della quale conoscevo l’inizio ma non l’evoluzione e di certo non la fine. Il mio obiettivo era fare opere, per così dire, mai compiute. Le opere che sono in mostra ora generano diversi trilioni di dipinti, opere che continuano a creare se stesse».

     

    Come immagina la sua arte nel futuro?

    «Non posso saperlo, non voglio saperlo. Una cosa che ho imparato da John Cage è che essere artista è un esercizio filosofico e quello che mi piace fare è continuare a esplorare questa filosofia».

     

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