Candida Morvillo per il “Corriere della Sera”
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«Mio figlio non andrà all' università, non ne vedo la ragione». Ma anche: «Mio figlio andrà subito a lavorare».
Ridotte all' essenzialità di un titolo, le parole di Flavio Briatore, affidate dapprima al settimanale Oggi e da lì riprese sul web, fanno scalpore come quasi tutto quello che l' imprenditore dice o fa e riaccendono un dibattito di anni recenti. Laurea a prescindere o no? Mister Billionaire, nove ristoranti e locali sparsi fra Dubai, Londra, Montecarlo un decimo prossimamente a New York, un fatturato da 66 milioni di dollari, un diploma di geometra «preso col minimo dei voti», intervistato dal Corriere,chiarisce la sua posizione:
«Non ho mai detto che, se mio figlio dovesse avesse avere la passione per matematica o ingegneria, gli vieterei la laurea. Nathan Falco farà quello che vuole. Però, penso che la metà di chi va all' università lo fa per compiacere i genitori o sentirsi chiamare dottore, per cui se mio figlio non vuole studiare, meglio che inizi a lavorare e imparare a 18 anni, che a 25 con una laurea inutile».
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E se volesse studiare Filosofia o altro che non c' entri con gli affari?
«Può fare anche il prete, se gli piace, ma credo di no: fa fatica col catechismo. A scuola va bene, ma vuole diventare calciatore, ed è giusto che abbia un sogno. In ogni caso, da grande, avrà la responsabilità di un gruppo che oggi ha 1.200 dipendenti e magari ne avrà duemila: deve comunque garantire le condizioni affinché tutti possano pagare i loro mutui. Io posso insegnargli, ma non ho vent' anni Prima comincia, meglio posso seguirlo e anche rendermi conto se è capace».
Se non rivelasse il suo stesso talento?
«Ci sarà un management e lui farà altro».
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Da dove lo farebbe cominciare?
«Dal basso, ma ne sa già parecchio ora. A neanche 8 anni, conosce per nome moltissimi dipendenti. È curioso, chiede informazioni, dà giudizi sensati al ristorante sui piatti, sul servizio. Parla inglese, francese, italiano».
Lavorare invece di laurearsi è lo stesso consiglio che darebbe al figlio di un povero?
«Se c' è attitudine allo studio, no. Altrimenti, perché non lavorare? Oggi, il mondo ha bisogno di idraulici ed elettricisti».
Quando esamina i Cv, non valuta la laurea?
«Non guardo i pezzi di carta, ma il merito: sulla carta, sono tutti geni. I nostri manager hanno cominciato con noi dal niente e sono cresciuti. Forse solo uno è laureato.
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Molti hanno iniziato a 18 anni, ora ne hanno 30, hanno comprato casa e il 70% sono italiani, anche se solo il 12% del fatturato si fa in Italia. Molti dipendenti hanno solo la licenzia media e da noi hanno trovato una prospettiva».
Lei non è fra chi si lamenta che i giovani non vogliono lavorare?
«Gli scansafatiche con me durano pochissimo. Decidono gli stessi dipendenti: se un team funziona, chi non funziona è fuori. È vero che qui non trovo lavoratori manuali, certi mestieri non tutti li vogliono fare».
Il reddito di cittadinanza che effetto le fa?
«La gente ha bisogno di dignità, non elemosina. Con le nostre coste, potremmo vivere di turismo. Perché invece di dare il reddito per stare a casa non consentono agli imprenditori di assumere giovani alla stessa cifra? Tanti, se potessero pagare 700 o 800 euro al mese, senza tasse e Tfr, assumerebbero. Nel turismo, con contratti stagionali di sei mesi. Le persone, almeno, imparerebbero un mestiere».
Lei quanti ne prenderebbe?
«L' Italia per noi è un mercato piccolo, ma una trentina li assumo».
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2. DOTTOR BRIATORE
Massimo Gramellini per corriere.it
Flavio Briatore ha anticipato al settimanale Oggi che non intende mandare suo figlio di otto anni all’università. In effetti si tratterebbe di una scelta piuttosto precoce. Ma Briatore non intende mandarvelo neanche dopo. Ha promesso, o minacciato, che sarà lui a formarlo. Lo introdurrà ai misteri del management, attività che non ha bisogno di lauree. Quelle servono a commercialisti e avvocati. L’imprendi(bria)tore è un organizzatore visionario del lavoro altrui. L’equivalente del politico contemporaneo, che considera le competenze uno sfizio da tecnici e le conoscenze un impaccio al dispiegarsi della creatività.
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Sergio Marchionne, che pure è stato un manager di qualche successo, la pensava diversamente. Era ossessionato dal deficit scolastico dei lavoratori italiani e dalla sottovalutazione del problema da parte delle classi dirigenti, in un sistema globale sempre più competitivo, dove la cultura è merce pregiata e un padre indiano o cinese si spezza la schiena per mandare a scuola la prole e spalancarle la mente, condizione ritenuta indispensabile per ampliarle il portafogli. Il virus dello studio, diceva Marchionne, dovrebbe diffondersi anche tra i figli di papà. I quali, proprio perché si trovano la pappa pronta, finiscono quasi sempre per rovesciarla.
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L’augurio migliore che si possa fare al figlio di Briatore, come a tutti i figli del mondo, è di non incatenarsi alle pianificazioni paterne, di seguire la propria stella e, prima ancora, di dotarsi degli strumenti per scoprire qual è.
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