Matteo Pinci per la Repubblica - Estratti
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[…] Gianluigi Buffon sta per chiudere i primi dodici mesi della sua vita senza partite, senza calcio giocato, senza agonismo.
Buffon, come lo ha vissuto questo primo anno senza pallone?
“L’ho vissuto bene, era come me lo immaginavo. I vuoti che inevitabilmente incontri passando dall’avere per trent’anni una vita scadenzata devi cercare di riempirli in modo più proficuo possibile. E credo di averlo fatto molto bene”.
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C’è qualcosa di sé che ha scoperto in questo anno?
“No, per me il dopo calcio si sta manifestando con entusiasmi che immaginavo e alcune volte delle malinconie. Sono inevitabili, dopo gli anni vissuti. Non bisogna abiurare il proprio passato: va ricordato, è qualcosa di importante. Ma la verità è che la proiezione deve essere sempre positive, su presente e futuro”.
E il futuro come lo vede?
“Diciamo da direttore sportivo? Dirigente? Metto il punto di domanda, ancora. Ma comunque all’altezza della situazione nelle cose che mi piacciono. Di sicuro voglio essere operativo, non mi piace essere passivo”.
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Come capire qual è il momento per dire: smetto?
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“Me lo sono chiesto per anni. E ci sta che qualcuno possa dirti “smetti”. Ma io, fino all’ultimo giorno, a livello di prestazione mi sentivo forte come i migliori. Il problema era che se prima ti facevi male una volta ogni due anni, nell’ultimo anno mi ero fatto male quattro volte allo stesso punto.
Sono segnali che la natura ti manda, devi essere bravo a coglierli, e ad accettarli. Ma io a 45 anni se andavo in porta ero sicuro che davo alla squadra quello che davo a 30 o a 20. Magari sotto altre forme: cresci in esperienza, in leadership: se perdi qualcosa dal punto di vista fisico, lo recuperi in altro”. […]
E chi sono gli uomini che la ispirano?
“Quelli sono venuti dopo crescendo, leggendo. Leggi la storia di Alekos Panagulis: a suo modo, anche nella follia dell’uomo, è stato un eroe. E poi gente come Montanelli, la Fallaci, Gianni Mura: giornalisti che non mi lasciavano indifferente. Magari non sono modelli, ma sono persone che ti passano qualcosa di forte, che può condizionare spero in meglio la tua vita”.
E qualcuno dei suoi miti, sportivi o no, lo ha conosciuto?
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“Mai conoscere i propri idoli. Quasi sempre rischi una delusione bruciante”.
Cambiamo argomento: lei ha accompagnato Zaniolo e Tonali a consegnare i propri telefoni agli inquirenti che indagavano sulle scommesse illegali. Cosa si dice in quel momento che immagino di tensione, anche di paura, a due ragazzi poco più che ventenni?
“La cosa che puoi fare, vista la serietà della situazione, è sdrammatizzare. Ho detto due cagate delle mie, che non posso ripetere perché non sarebbe educativo. Ma io ci sono passato, quelle sono cose che – se hai sempre rispettato le regole – ti colpiscono nel profondono, che ti offendono nel profondo. E già il fatto che uno si offenda è importante: ti rassicura di essere vivo e di avere ancora qualche valore”.
Negli anni hanno provato ad attaccarle etichette terribili: fascista, nazista, scommettitore. Se lo è spiegato?
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“Quando uno pensa che il mondo ce l’abbia con lui la prima domanda da farsi è perché. E la seconda è se c’è una ragione, se hai prestato il fianco. Io sicuramente a volte sono stato leggero. Ma mi rassicurava il fatto di sapere chi sono. E a volte mi prendevo licenze per questo”.
Era voglia di trasgredire?
“Sì, anche. Ho tanto paura quando vedo persone che conducono vite sempre ordinate, scandite: penso che prima o poi arrivino a un punto di rottura. Come essere umano hai bisogno di trasgredire. Di momenti in cui decomprimi. Se non lo fai mai, il botto poi è più grande: quante volte avete letto di persone modello che dal giorno alla notte fanno una strage?”.
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[…] Lei invece sembra impetuoso.
“Da ragazzo ero fatto e finito per società e ambienti del sud. Tipo Roma, Napoli, Bari. Per il tipo di carattere, per l’impatto nello spogliatoio, con le persone: mi alimentavo con la vicinanza della gente, anche quando diventava morbosità. Ma alla fine non sono mai approdato in una di quelle piazze . Mi hanno guidato mio padre e il mio procuratore. Torino e la Juve mi hanno permesso di ritrovarmi in equilibrio. In una piazza incasinata, per come ero fatto, rischiavo che la bilancia tirasse solo da una parte”.
Quindi anche per Cassano alla Juve sarebbe andata diversamente?
“Antonio è nato fuoriclasse e lo è stato sempre. Credo lui avesse bisogno di entrare in un contesto di spogliatoio e di compagni particolari. Insieme abbiamo fatto Europei, un Mondiale, sono stato benissimo con lui. E con Gattuso, ci siamo divertiti da morire. Ma alla fine gli dicevo: Anto’, per fortuna che dura solo un mese, tenerti un anno così… Io ho vissuto solo la parte bella di Antonio. Poi chiaramente qualcosa che usciva c’era, glielo dovevi concedere. Ma devi capire con cosa hai a che fare, non puoi reprimere sempre tutti, andare dietro a un decalogo”.
Quali sono le sliding doors della sua carriera?
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“Nel 2001, dal Parma, avevo quasi fatto con la Roma. Era questione di dettagli. Poi anche col Barcellona. Alla fine però sono andato alla Juve. Poi nel 2005 c’è stata una grandissima società straniera che mi voleva, ma non l’ho presa in considerazione. Finito il Mondiale, potevo andare ovunque. Nel 2007 c’erano almeno due squadre italiane.
E nel 2011 stavo di nuovo andando alla Roma, perché con la Juve s’era rotto qualcosa: mi chiamò Montali, mi piaceva. Poi però arrivò Conte e impose la mia presenza. Quando dal Psg sono tornato alla Juve stavo per andare al Porto. Avevo già visto i voli, la città. E altre due volte sono stato vicinissimo all’Atalanta. La seconda avevo già deciso. Ma siccome alla Juve mi conoscono come le loro tasche fecero una riunione in cui eravamo io, Paratici, Pirlo. Che mi disse: Gigi, cavolo, è il primo anno che alleno, sono venuto sapendo che c’eri tu… Cosa potevo dirgli?”.
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Può rigiocare una partita sola della sua carriera. Quale le viene in mente? Lo spareggio per i Mondiali, le finali di Champions…
“No. Rigioco Italia-Spagna, la finale dell’Europeo del 2012. Siamo sembrati dei paracadutati, perdendo in quel modo, 4-0. Non meritavamo quella figura. Io non cerco mai alibi. Ma abbiamo giocato una partita in condizione psico-fisica impossibile, eravamo stremati. Se ci avessero dato un giorno in più di risposo avremmo potuto fare una partita diversa, invece così non potevamo opporre nulla a una Spagna giù forte di suo, mentre nei gironi eravamo stati gli unici a fermarli”.
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Ora è iniziata la sua seconda vita in Nazionale: che Italia ha trovato?
“I ragazzi li avevo sottovalutati. Hanno uno spessore incredibile dal punto di vista umano e non lo avrei detto. E anche dal punto di vista tecnico sono più bravi di quanto si pensi fuori: siamo un’ottima squadra. Con un allenatore così, che insieme a qualche giocatore è il nostro punto forte, la Nazionale non sfigurerà. Dire oggi che vinceremo con certezza sarebbe ridicolo. Ma avremo cuore e logica”.
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Spalletti è come lo immaginava?
“Un carattere molto forte, carismatico, a modo suo. Il leader della squadra. È difficile andare in contrapposizione con lui . Ma quando lo conosci, cogli aspetti umani che ti fanno capire la sofisticatezza dei suoi ragionamenti e quindi delle decisioni che prende. E poi è stato sempre un grandissimo allenatore. Per anni gli hanno rotto le scatole perché non aveva vinto. Ma lui la squadra più forte non l’ha mai avuta: sempre squadre dalla terza alla quinta, e così vincere non è mai facile. Semmai ha avuto il merito di connotare le sue squadre. E di rendere interessanti campionati che si sarebbero altrimenti conclusi con largo anticipo, tipo contro l’Inter di Mancini. Ed esprimendo sempre un calcio godibile. Sapevi che contro la squadre di Spalletti la vittoria non te la portavi da casa. Poi c’è un altro aspetto: chiunque lo ha avuto come allenatore, dice che lui è eccezionale. Tutti. Vuol dire che c’è qualcosa di speciale in lui”. […]
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