NE VEDREMO DELLE BELLE: VOLANO GIÀ GLI STRACCI TRA I TECNO-PAPERONI CONVERTITI AL TRUMPISMO – ELON…
Stefano Agnoli per il "Corriere della Sera"
A caccia del «tesoro» del defunto dittatore libico, e della sua famiglia. A quanto ammonta? Non si sa con precisione, e probabilmente non si potrà sapere mai. Subito dopo la decisione della comunità internazionale di congelare tutti i beni libici all'estero, una contabilità un po' sommaria aveva ipotizzato circa 100 miliardi di dollari tra conti correnti bancari, investimenti finanziari e proprietà immobiliari disseminate in giro per il mondo.
Nei soli Stati Uniti, lo scorso anno, i funzionari dell'amministrazione Obama hanno rintracciato conti e investimenti riconducibili al passato regime per un valore di 37 miliardi di dollari. Altri 30 miliardi di dollari circa sono spuntati in Europa, tra Francia, Italia, Regno Unito e Germania. Stimando attività varie in Medio Oriente, Asia e in particolare Africa (dove operava la Libyan African Portfolio, e il Colonnello si muoveva con mire post-coloniali) si arrivava, appunto, a quota 100 miliardi.
Un valore rimesso in discussione solo pochi mesi fa, quando il Los Angeles Times, citando come fonte alcuni non meglio precisati e ovviamente anonimi «senior Libyan officials», ha addirittura avvalorato il raddoppio della cifra, a quota 200 miliardi di dollari.
Ma la ricerca di quelle somme e di quei beni - e il loro ritorno nelle tasche del popolo libico - non sarà per niente facile, come ha mostrato la causa conclusa l'8 marzo scorso a Londra, dove l'Alta Corte della capitale britannica ha sancito la restituzione al nuovo Stato post-rivoluzionario di una villa del valore di 10 milioni di sterline appartenuta a Saadi Gheddafi, il figlio calciatore (ex del Perugia di Luciano Gaucci) ora rifugiato in Niger.
La «mansion» di Hampstead - stile neo-georgiano, otto camere da letto, piscina e cinema privati - era stata acquistata dal rampollo di Muammar solo sei mesi prima dello scoppio della primavera araba, e «dopo una visita più veloce del normale», come ha testimoniato l'agenzia immobiliare che ha trattato l'affare. Saadi comprò la villa tramite una società -schermo offshore delle British Virgin Islands, la Capitana Seas Limited, e in questo caso è stato necessario un intervento diretto del Tesoro britannico sulle omertose autorità delle Isole Vergini per ricondurre la società offshore alla persona di Saadi Gheddafi.
L'avvocato che ha lavorato sul caso per conto dell'ambasciata libica, per di più, ha dovuto dimostrare che il figlio-playboy dell'ex dittatore libico, con il suo stipendio ufficiale di 34 mila sterline l'anno (percepito come comandante dell'unità 48 dell'esercito della Jamahiryia) non sarebbe stato in grado di pagare, pronta cassa, dieci milioni di sterline. Una somma, quindi, che era il frutto di fondi illecitamente sottratti allo Stato libico.
Insomma, malgrado la pluridecennale commistione tra beni formalmente statali e proprietà che sono sempre materialmente rimaste a disposizione dell'ex dittatore e della sua famiglia, non sarà così facile mettere le mani sul «tesoro» dei Gheddafi. Non sempre le ville, i terreni, le auto di lusso, le quote azionarie e gli altri investimenti saranno riconducibili direttamente a qualcuno dei membri del clan, o dei suoi gestori e degli intermediari legali di volta in volta individuati.
Oltre alla difficoltà di risalire a sconosciute società -schermo dislocate nei vari paradisi fiscali e societari, non sarà neppure semplice ricostruire tutte le attività più o meno «coperte» intraprese, ad esempio, in Paesi dell'Africa sub-sahariana. L'Uganda, pochi giorni fa, ha deciso di «scongelare» 375 milioni di dollari di assets libici. Tra di essi una società di costruzioni, una catena alberghiera, il 51% di Uganda Telecom, una banca e la Tamoil East Africa. Che altro in altri Stati dell'Africa centrale e meridionale?
Una fonte completa e coerente degli interessi libici (e del clan Gheddafi) in Occidente comunque esiste. Resa pubblica da Global Witness, è rappresentata dal rendiconto del principale strumento finanziario del regime del Colonnello: la Libyan Investment Authority (Lia), il fondo sovrano istituito nel 2006 per impiegare in attività finanziarie i ricavi della vendita di idrocarburi.
Dall'energia sono arrivate alle casse di Tripoli parecchie decine di miliardi di dollari, più del 90% del budget statale. Secondo l'Energy Information Agency di Washington, nell'ultimo anno prima della rivoluzione (il 2010) la Libia ha incamerato 44 miliardi di dollari dal solo petrolio (l'Arabia Saudita, se si vuole fare un paragone, nello stesso anno di miliardi ne ha incassati 225).
Nel terzo trimestre del 2010 la Lia «valeva» così 64 miliardi di dollari, un gruzzolo enorme. Di questa somma, 24 miliardi erano di competenza di altre controllate come la «Long Term Investment Portfolio» (8,5) o la già ricordata «Libyan African Portfolio» (5,2). Una ventina di miliardi era affidata invece a depositi bancari, soprattutto nella Banca centrale guidata dal governatore Farhat Bengdara, consigliere di amministrazione di Unicredit. Un miliardo, per inciso, era in custodia alla banca britannica Hsbc.
Ma è nel nutrito «giardinetto» di azioni che si ha la dimostrazione della struttura tentacolare del fondo del regime. A valore di libro gli investimenti maggiori del clan Gheddafi erano in Unicredit (1,3 miliardi), Eni (942 milioni) e nella tedesca Siemens (476 milioni). Tra i titoli strategici si trova anche un pacchetto della Pearson (acquistato a 370 milioni), la società editrice del «Financial Times». E poi il colosso russo dell'alluminio Rusal, la Basf, la spagnola Repsol, Finmeccanica.
Telecomunicazioni, energia e banche la fanno da padrone. Il tutto per quasi 8 miliardi di dollari, che ai prezzi di Borsa di oggi hanno comunque subito un pesante ridimensionamento. Ma al defunto raìs è stata accreditata in passato anche la proprietà di ingenti quantità d'oro (proprio in chiave di misura «anti-congelamento» da parte dell'Occidente) con il quale avrebbe finanziato buona parte della sanguinosa campagna militare. Qualcuno aveva parlato di 140 tonnellate di lingotti, qualcosa come 6-7 miliardi di dollari. Ma con l'«oro del Colonnello» disperso nella sabbia del deserto libico forse si sta sconfinando nella leggenda.
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