ILVA ALLA DE-RIVA - GLI OPERAI CONTRO IL SEQUESTRO DISPOSTO DAL GIP - “MANGEREMO ARIA PULITA?” - “CON QUESTO SEQUESTRO, FANNO MALE A NOI, NON AL PADRONE. QUELLO NON CI PENSA DUE VOLTE, FA LA VALIGIA E VA VIA” - “PERCHÉ GLI AMBIENTALISTI NON VENGONO A TROVARCI? HANNO FIFA?” - LO STABILIMENTO APPARTIENE A EMILIO RIVA, GIRO D’AFFARI DI DIECI MILIARDI DI EURO GRAZIE AGLI AIUTI DI STATO, OTTENUTI CON LA SCUSA DI “SALVAGUARDARE I POSTI DI LAVORO”…

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1- ILVA ALLA DE-RIVA
Luca Pagni per "la Repubblica"

Quando si parla dell'Italia che ha perso la sua grande industria, quella che l'aveva portata tra le grandi potenze del mondo occidentale grazie al boom economico del Dopoguerra, si fa torto a un settore che - nonostante chiusure e ristrutturazioni - ancora regge nell'arena della competizione globale.

Perché la siderurgia del nostro paese può vantarsi di essere al secondo posto in Europa, alle spalle della sola Germania, con oltre 28 milioni di tonnellate di acciaio prodotte, con una crescita che l'anno scorso è stata del 5 per rispetto al 2010. Nonché al primo posto nel Vecchio Continente per il riciclo del materiale ferroso.

Una posizione di rilievo conquistate grazie ad alcune dinastie di industriali, di cui il patron dell'Ilva di Taranto, quell'Emilio Riva detto il "ragioniere dell'acciaio" (per il fatto che la laurea in ingegneria l'ha presa solo di recente e honoris causa) è il suo esponente di spicco.

L'appellativo gli viene dalla sua storia: quella di un self made man, partito dalla Milano dei Navigli, assieme al fratello, negli anni ‘50 rivendendo materiali ferrosi di scarto. E che ancora oggi, pur avendo superato gli 80 anni d'età, guida il gruppo - è il caso di dirlo - con mano di ferro, assieme ai quattro figli.

I maligni dicono dei Riva che si sono arricchiti grazie alle crisi. Loro direbbero che hanno saputo sfruttare il momento favorevole per comprare. Lo hanno fatto in Italia, con l'Italsider di Genova. Così come l'Ilva di Taranto, messa in vendita nel 1995 dal governo Dini, con un investimento che a detta degli esperti si è ripagato nel giro di tre anni. Ma i Riva hanno fatto lo stesso all'estero: comprando impianti in crisi o i perdita, ristrutturano e guadagnano.

Qualcuno dice ottenendo dai governi benefici ricattandoli con la salvaguardia dei posti di lavoro. Oppure come in Italia con l'uso sapiente della cassa integrazione. Fino a diventare uno dei primi dieci gruppi al mondo, con un giro d'affari da dieci miliardi. Con la differenza che quello dei Riva è l'unica impresa a carattere "familiare", mentre tutti gli altri
sono colossi, dai russi di Severstal agli indo-francesi di ArcelorMittal, tutti quotati in Borsa.

Ma la particolarità degli industriali dell'altoforno è quella di essere lontani dai salotti "buoni" della finanza. Ma non dai giochi della finanza, fatta da società lussemburghesi e scatole off shore, con cui ha blindato il controllo del gruppo e promosso vendite tra società del gruppo che hanno fruttato nei primi anni 2000 bei quattrini.

Per i Riva, il cui unico investimento fuori dal coro è stato nel 2008 l'acquisto del 10% della nuova Alitalia: ma l'hanno fatto per fare un favore a Intesa Sanpaolo, grande sponsor del progetto, da cui avevano appena ottenuto un finanziamento per la costruzione di due gigantesche navi per il trasporto di materiale ferroso.

Ma è lo stesso per gli altri big del settore, dai Pasini agli Amenduni a Brescia, agli Arvedi di Cremona, per arrivare alla famiglia Marcegaglia. Di cui si sentirebbe parlare poco, se non fosse per la militanza di Emma, figlia del fondatore del gruppo Steno, ai vertici di Confindustria. Anche la siderurgia, però, ha dovuto fare i conti con le crisi degli ultimi decenni.

Che ha fatto le sue vittime. Come i Falck, le cui acciaierie di Sesto San Giovanni hanno fatto la storia industriale italiana e che a vent'anni dallo loro chiusura sono solo un progetto di riqualificazione sulla carta, per quanto con la prestigiosa firma di Renzo Piano. O come i Malacalza di Genova che hanno ceduto agli ucraini di Metinvest nel 2008, per reinvestire nella Pirelli. O per finire con l'altro colosso bresciano, quelli dei Lucchini, passato a Severstal ma con scarsa fortuna: i russi hanno azzerato il valore degli impianti in bilancio e li hanno messi in vendita. Finora senza acquirenti.

2 - LA RABBIA DEGLI OPERAI PARALIZZA LA CITTÀ "SE CHIUDONO L'AZIENDA ANDRÒ A RUBARE"...
Lello Parise per "la Repubblica"

Barbe lunghe, facce tirate, occhi stanchi. L'avamposto della rabbia operaia è lungo la statale 100, quella che costeggia la fabbrica "commissariata" dai magistrati. Vito - «scrivi solo Vito, mi raccomando » - ha 21 anni e lavora all'interno della acciaieria da diciotto mesi: «Adesso vediamo un po' come sarà possibile sbloccarla, questa situazione». Si avvicinano Pasquale Albano, che di anni ne ha 22, e Michele Monfredi, di 25: «Dei Riva, sappiamo. Ma gli altri, chi sono?».

Salta fuori un foglio dove qualcuno aveva scarabocchiato sei cognomi: De Felice, Capogrosso, Di Maggio, Andelmi, D'Alò, Cavallo. Parla Michele e ha l'aria di saperla lunga: «Li conosco, sono ingegneri. Si tratta di tecnici di fama internazionale. Trattati però come assassini. Proprio non capisco». Pasquale scuote la testa: «La verità è che da domani, anche noi dobbiamo stare a casa. Senza lo straccio di un'occupazione».

Nessuno sa quello che succederà, adesso. Giosuè Peluso, 43 anni, da tredici all'Ilva: «Io ho due figlie femmine da mantenere, una ha 7 anni e mezzo e l'altra appena quaranta giorni. Vorrà dire, come stanno le cose, che mangeranno aria pulita, ma fritta. Siamo incazzati, questa è la verità».

Nessuno degli automobilisti che arrivano da Bari, tenta di forzare il blocco stradale. Carabinieri e poliziotti controllano, con discrezione, che non accada nulla di irreparabile. Ma all'improvviso, un uomo mingherlino con addosso una maglietta bianca scende dalla motocicletta Tmax nera che stava guidando, si avvicina alla Fiat Punto di un amico e gli intima: «Spostati, guido io. Adesso ti faccio vedere come si passa».

E pigia sull'acceleratore: investe un ragazzo, ma per fortuna non gli fa male. La reazione è tanto spontanea, quanto nervosa: spaccano il parabrezza della Punto prima che un brigadiere faccia capolino tra la piccola folla, calmi gli animi e trattenga la coppia di esagitati "per accertamenti".

È, questo, l'unico gesto violento di una giornata che sembra non debba finire mai. Gregorio Di Cato, 35 anni, che nel siderurgico più grande d'Europa sgobba dal 2002, ha un diavolo per capello: «Non scambiate la nostra tranquillità per rassegnazione. Io devo sfamare una moglie e mia figlia, di 2 anni. Se mi butteranno fuori dall'azienda, sarò il primo che andrà a rubare per campare».

Non si dà pace, Gregorio: «Perché gli ambientalisti non vengono a trovarci? Hanno fifa. Dov'è il sindaco Ippazio Stefàno? Si è preso i nostri voti, alle ultime elezioni, e addio. Ma noi non facciamo parte di questa città? Non paghiamo le tasse come tutti quanti gli altri? Il guaio ora è che non sapremo più come sbarcare il lunario. Mediamente guadagniamo tra i 1.300 e i 1.500 euro al mese. Con l'aria che tira qualcuno di quelli abituati a chiacchierare in televisione, mi spiega che fine faranno le bollette e i conti da saldare?». Lo interrompe Vito Massaro: «Sei bravo, tu. Voi, almeno, nel peggiore dei casi intascherete la cassa integrazione. Quelli come me, invece... ».

Non apre più la bocca, il silenzio dura un paio di minuti, è come se volesse scoppiare a piangere. Poi, però, si riprende e con un sorriso sulle labbra incartapecorite dal sole racconta: «Ho 44 anni, una famiglia a cui badare. Sono quello che voi cronisti chiamate un "indiretto". Sì, insomma, ho un contratto a tempo determinato con la Modomec di Massafra. Se l'impresa non ha più commesse dall'ex Italsider, a me danno un calcio nel sedere e arrivederci.

Dovrò chiedere l'elemosina, per sopravvivere? Tutto giusto, quello che decidono i giudici. Ma una cosa proprio non riescono a comprenderla. Con questo sequestro, fanno male a noi, non al padrone. Quello non ci pensa due volte, fa la valigia e va via». Vincenzo Castronuovo, sindacalista di Fim Cisl, avverte: «Non possiamo fare finta di nulla. Vogliono mettere l'Italia in ginocchio.

Non scherzo. I coils, cioè i rotoli d'acciaio, partono per le altre fabbriche di Riva, quelle di Novi Ligure, Genova, Marghera. Ma se da Taranto non parte niente, niente arriva e così la Fiat, per citare quella più conosciuta, non può più fare le carrozzerie. Siamo al disastro. Si fermerà tutto. Questo non è un luna park, che lo smonti e lo sposti altrove».

Mezz'ora dopo le sette della sera, davanti alla prefettura, dove la rabbia operaia più intontita che furiosa aspetta di sapere qualcosa, piovono fischi al segretario provinciale della Uil: «Talò, vai via». Il faccia a faccia col rappresentante del governo Claudio Sammartino si era concluso da poco, tra rassicurazioni generiche e la raccomandazione che i nervi non saltassero come birilli impazziti. Talò, imperterrito: «Stiamo calmi. Perché questa storia non finisce stasera ». Sembra che l'accordo di programma firmato a Roma per le bonifiche dell'area industriale, dovrebbe scongiurare i licenziamenti. Non lo ascoltano. «Andiamo ad occupare il ponte girevole».

 

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