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R.E. per “la Stampa”
Procede senza indugio l' inchiesta della Corte dei Conti sulla vicenda dei derivati sottoscritti dal ministero del Tesoro (Mef) con Morgan Stanley e chiusi anticipatamente tra la fine del 2011 e l' inizio del 2012.
I magistrati contabili chiedono alla banca americana e a quattro tra ex e attuali dirigenti di Via XX settembre un danno erariale per 4,1 miliardi. La notizia era già rimbalzata all' inizio di agosto da parte della stessa Morgan Stanley, la quale ne aveva fatto cenno nella trimestrale.
A ricevere l'invito a presentare le carte sono i dirigenti che hanno firmato (e poi chiuso) quei contratti: Maria Cannata, attuale direttore del debito pubblico, Vincenzo La Via (oggi direttore generale del Tesoro), Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro all' epoca della stipula dei contratti e oggi vicepresidente per l' Europa proprio di Morgan Stanley e infine Vittorio Grilli, direttore generale al momento della chiusura dei contratti, oggi ai vertici di JpMorgan.
L' inchiesta della Corte dei Conti procede nonostante - ad aprile dell' anno scorso - la Procura di Roma abbia chiesto al Tribunale dei ministri l' archiviazione per la stessa inchiesta di Mario Monti, all' epoca dei fatti premier.
«La clausola di estinzione anticipata era stata apposta legittimamente, ed è stata legittimamente esercitata da Morgan Stanley nell' ambito delle sue facoltà contrattuali», si leggeva nelle motivazioni della procura. Stessa richiesta era stata sollecitata per Maria Cannata, accusata di manipolazione del mercato, truffa e abuso d' ufficio.
La vicenda risale al 2011-2012, quando - nel pieno della turbolenza causata dall' aumento degli spread - Morgan Stanley chiese l' attivazione della clausola per la risoluzione di contratti firmati fra il 1999 e il 2005.
Secondo la Corte dei Conti - dell'inchiesta si sono occupati Massimiliano Minerva e prima di lui il mancato assessore al Bilancio di Roma Raffaele De Dominicis - la clausola di recesso era incompatibile con una sana gestione del debito pubblico.
Un anno fa la Procura di Roma ha detto l' opposto: «La Repubblica italiana non disponeva di valide ragioni per contestare sul piano giuridico né la legittimità e la validità della clausola, né la legittimità del suo esercizio». Di più: «La sua mera inadempienza di fatto avrebbe comportato per la Repubblica un danno facilmente intuibile in termini di reputazione e difficilmente calcolabile nei suoi effetti economici». Motivazioni che evidentemente non hanno spostato di un millimetro l' orientamento della Corte dei Conti.
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