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Francesco Manacorda per "la Stampa"
Il termine terremoto è più che abusato, ma quello che in una manciata di giorni sta succedendo nella maggiore banca italiana e nella principale società telefonica del Paese assomiglia davvero a un sisma che scuote le strutture, facendo cadere chi ne occupa i posti più alti. E le scosse arrivano, forse non a caso, nel momento in cui un altro sisma scuote il fragile governo Letta.
Per Enrico Cucchiani l'uscita dalla guida di Intesa Sanpaolo è ormai una realtà e non più un'ipotesi. L'addio al Ceo - spiega uno dei grandi azionisti della banca, sotto vincolo di anonimato - «mi sembra inevitabile». Tutto procede infatti spedito in quella direzione: al consiglio di sorveglianza della banca convocato per martedì il presidente Giovanni Bazoli dovrà affrontare il tema.
Cucchiani, starebbe trattando non solo la sua liquidazione il contratto gli assicurava una permanenza fino al 2015 - ma anche una clausola «del silenzio» sulle vicende della banca. Se questo avverrà molte curiosità potrebbero rimanere insoddisfatte. Lo scontro tra Cucchiani e Bazoli è nato per l'opposizione del primo alla banca di sistema di cui il presidente è stato invece convinto sostenitore, e al conseguente l'impegno in casi come Rcs, Telco, Alitalia, nonché al sostegno generoso al gruppo Zaleski? O invece Cucchiani deve uscire perché non era in grado di gestire la complessa struttura del gruppo creditizio? O ancora la sua uscita deriva dall'intenzione di cercare altri azionisti per il gruppo insidiando così il primato delle Fondazioni?
Per un Cucchiani che viene spinto a uscire ecco un Bernabè che sceglie di andarsene sulle sue gambe, prima che i soci lo mettano alla porta. Il presidente esecutivo replica la mossa che già fece - era il giugno 1999 quando si dimise da amministratore delegato di Telecom dopo la conquista della società da parte dell'Olivetti di Roberto Colaninno, al quale aveva tentato invano di opporsi.
Ora lo fa, è la spiegazione che arriva da ambienti a lui vicini; per evitare ulteriori danni all'azienda, per impedire una spaccatura nel prossimo cda che si verificherebbe se Bernabè presentasse la proposta di un aumento di capitale, che vedrebbe favorevoli i consiglieri indipendenti e contrari quelli di Telco.
Ma l'arma dell'aumento di capitale è spuntata: per approvarlo servono i due terzi dei voti in un'assemblea straordinaria:con il 22,4% di Telecom in mano a Telco è un risultato quasi impossibile da raggiungere. Le dimissioni, ovviamente, suonano anche come una protesta contro la scelta dei soci italiani di Telco - Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca - di vendere a Telefonica, che secondo Bernabè non avrà alcun interesse a sviluppare il gruppo italiano.
C'è un nesso tra queste due vicende? Qualcuno sottolinea il legame tra Cucchiani e Bernabé: caduto il primo anche il secondo si sarebbe ritrovato più debole. Può essere, ma non pare questo il punto centrale. Piuttosto entrambi subiscono l'effetto che la crisi finanziaria ha avuto sul capitalismo di relazione italiano: con i bilancio all'osso Mediobanca, Intesa e Generali escono da Telco cercando di minimizzare le perdite e senza troppi scrupoli per quello che avverrà all'azienda; sempre a causa del bilancio Intesa Sanpaolo si trova in difficoltà a fare operazioni «di sistema» che magari hanno un impatto negativo sul conto economico.
In tutti i casi i soci presenti - quelli finanziari per Telco e le Fondazioni per la banca - non possono o non vogliono sganciare altri soldi per aumenti di capitale. Al tempo stesso non vogliono che un aumento lo sottoscrivano nuovi soci perché temono di diluirsi perdendo il loro premio di - assai relativa, per la verità maggioranza. Per strade diverse ma in qualche modo parallele, Cucchiani e Bernabè che non sono certo rivoluzionari, ma che con questo sistema hanno convissuto tranquillamente per anni - pagano adesso il conto.
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