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Mario Cervi per "il Giornale"
Non ho un'opinione sugli aspetti giudiziari dello scandalo Finmeccanica. Essendo un'azienda di Stato, soggetta cioè a influenze e interferenze politiche, sospetto tutto il male possibile. Allo stesso tempo mi sembra evidente che il gelido formalismo di un'inchiesta della magistratura sembra indifferente - per Finmeccanica come per l'Ilva alla sorte di molti lavoratori e all'interesse del Paese.
M'inchino comunque alla legge, non ai guru della politica e del giornalismo quando, su temi di questa delicatezza, si contraddicono platealmente. Nella sua essenza, quella di Finmeccanica è una storiaccia di tangenti. Può darsi che qualcuno tra i negoziatori e intermediari si sia messo in tasca una mazzetta. Saremmo di fronte a un ladro, da punire adeguatamente, se ci si riesce. Un discorso molto diverso riguarda le somme che, per avere contratti e vendere i suoi prodotti, un'azienda delle dimensioni e dell'importanza di Finmeccanica ha pagato a personaggi dello Stato compratore. L'operazione, se vera, è in astratto moralmente riprovevole oltre che penalmente perseguibile.
Ma dobbiamo buttare la croce addosso a un manager se disinteressatamente ha foraggiato -manager e politici stranieri per ottenere commesse? à meglio non farlo, chi lo nega. Ma se tutti lo fanno, e se in Paesi anche molto importanti vige un sistema tangentizio, come ci si deve comportare? Accettare, in nome della trasparenza e della virtù, il declino e la crisi del made in Italy?
Oppure mollare le bustarelle- come i concorrenti - per fare buoni affari? Ma, si obietterà , la corruzione pubblica non è mai separata dalla corruzione privata. Non è vero. La corruzione privata è spesso associata alla pubblica, ma non sempre. Non voglio riferirmi a Tangentopoli, e alla vicenda del democristiano Citaristi, perseguito dalla legge come nessun altro amministratore di partito, eppure specchiatissimo per i comportamenti personali.
Voglio riferirmi a un personaggio di ben maggiore calibro, il creatore e presidente dell'Eni Enrico Mattei, molto ricordato in questi giorni ricorrendo il cinquantenario della morte (27 ottobre 1962). Mattei non era avido di ricchezza, ho già scritto che amava il potere- con gli agi che ne derivavano- non il denaro. Un genio imprenditoriale onesto, messo al servizio dell'Italia. Ma anche il maggior corruttore che l'Italia abbia avuto, l'uomo grazie alla «rendita metanifera », ossa alle plusvalenze per la vendita del gas, era in grado di foraggiare il Palazzo. Fu lui il re delle tangenti. Lo fu avendo in testa un'idea nobile di progresso e indipendenza dell'Italia. Ma fu un grande corruttore.
Nelle rievocazioni di questi giorni Mattei è stato riportato agli onori dell'attualità con discorsi e commenti fervidamente elogiativi. Soprattutto la sinistra -a cominciare dall' Unità - ha visto in lui un eroe. Combattè le «sette sorelle» dominatrici nel petrolio, si spese per il mondo arabo. Tutto innegabile.
Ma la tangente voluta o tollerata dalla dirigenza di Finmeccanica e da un ministro come Claudio Scajola - peraltro piuttosto distratto negli acquisti immobiliari non olet, se è una tangente onesta, come la tangente di Mattei. Oppure sono entrambe biasimevoli, e allora non si insista nell'osannare Mattei. Non vorrei essere frainteso. Lungi da me l'idea di paragonare uno Scajola o un Pozzessere o un Estaban Caselli a Enrico Mattei. Appartengono a mondi lontanissimi: tranne che per le mance alla politica.
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