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NEMMENO VENDERSI BASTA A SCHIVARE LA RITORSIONE DI TRUMP – APPLE SI È AVVICINATA AL TYCOON, TIM COOK HA PARTECIPATO ALL’INAUGURATION DAY E HA SEMPRE AVUTO BUONI RAPPORTI CON LA CASA BIANCA, PROMETTENDO INVESTIMENTI DA CENTINAIA DI MILIARDI DI DOLLARI IN AMERICA. EPPURE, I DAZI DEL TYCOON RISCHIANO DI FAR SALTARE LA CATENA DI PRODUZIONE DEGLI IPHONE, FORTEMENTE DIPENDENTE DALLA CINA, DOVE VIENE FABBRICATO IL 90% DEI MELAFONINI – TRUMP SOGNA DI FAR TORNARE APPLE A COSTRUIRLI NEGLI USA MA È IMPOSSIBILE: NON BASTANO I LAVORATORI, E QUELLI CHE CI SONO COSTEREBBERO TROPPO (I VANTAGGI DELLE DITTATURE…)
Traduzione di un estratto dell’articolo di James Titcomb e Hannah Boland per https://www.telegraph.co.uk/
[…] «Tim Cook mi chiama direttamente», dichiarò l’allora presidente degli Stati Uniti nel 2019, parlando di sé in terza persona durante il suo primo mandato. «È per questo che è un grande dirigente. Perché mi chiama, mentre gli altri no.» Gli altri amministratori delegati, aggiunse, «assumono costosi consulenti».
Nonostante Trump fosse estremamente impopolare tra i dipendenti di Apple nella Silicon Valley, Cook – navigato diplomatico aziendale – mantenne con lui un rapporto cordiale, riuscendo a orientarsi con destrezza nella burrascosa guerra commerciale lanciata dalla Casa Bianca contro la Cina.
CROLLO DELLE AZIONI APPLE DOPO L ANNUNCIO DEI DAZI DI TRUMP
Le sue pressioni furono decisive per ottenere esenzioni dai dazi su miliardi di dollari di importazioni cinesi, tra cui smartwatch e altri componenti. Trump, dal canto suo, rivendicò di aver riportato la produzione Apple negli Stati Uniti durante una visita a uno stabilimento di Mac in Texas (aperto però dal 2013, fatto che Apple non smentì pubblicamente).
Ma mercoledì, le manovre diplomatiche di Cook sembrano essersi schiantate contro un muro.
Trump ha imposto dazi pesanti non solo alla Cina – dove si produce la maggior parte degli iPhone – ma anche a Paesi come il Vietnam e l’India, verso cui Cook aveva spostato con discrezione parte della produzione, in previsione di ulteriori tensioni con Pechino.
Secondo gli analisti di Rosenblatt Securities, le nuove tariffe potrebbero far aumentare il prezzo di un iPhone fino al 43%. L’iPhone 16 Pro Max più costoso arriverebbe a circa 2.300 dollari (1.773 sterline), rispetto ai 1.599 attuali, mentre il modello più economico costerebbe 1.142 dollari invece di 799.
In alternativa, assorbire parte di questi rincari significherebbe un duro colpo ai celeberrimi margini di profitto dell’azienda, con una perdita potenziale di decine di miliardi di dollari.
Giovedì, le azioni Apple sono crollate del 9,3%, bruciando 311 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato: è la seconda maggiore perdita di valore in un solo giorno per un’azienda nella storia (superata solo dal crollo da 600 miliardi di Nvidia a gennaio).
La Casa Bianca ha confermato che, a differenza del 2018, questa volta non sono previste deroghe per i prodotti Apple.
Il colpo solleva interrogativi sulla lunga opera di avvicinamento di Cook a Trump, e sulla strategia decennale di decoupling dalla Cina. Se in un conflitto bilaterale la strategia poteva apparire lungimirante, oggi Trump ha colpito con dazi quasi ogni Paese produttore.
Fu proprio Cook a progettare lo spostamento della produzione Apple in Cina, un quarto di secolo fa, e poi la graduale ritirata. Assunto nel 1998, poco dopo il ritorno di Steve Jobs, trasferì la manifattura fuori dagli Stati Uniti, costruendo una catena di fornitura cinese tanto complessa quanto formidabile, grazie a contractor come Foxconn.
Negli ultimi anni ha cercato di invertire la rotta, spingendo i partner a insediarsi in altri Paesi asiatici.
[…] Il Vietnam – dove Apple produce oggi AirPods, iPad e Apple Watch – è stato uno dei Paesi più colpiti dalle nuove tariffe, con un’aliquota del 46%.
Pur essendo inferiore a quella effettiva del 54% applicata alla Cina, non tiene conto dei forti investimenti compiuti da Apple e dai suoi partner per trasferire parte della produzione nel Paese. Inoltre, la Cina potrebbe avere più margine per ottenere esenzioni: giovedì Trump ha dichiarato che Pechino potrebbe ricevere concessioni se approvasse la vendita della filiale americana di TikTok.
Apple ha anche subito un contraccolpo politico per la sua strategia di distacco dalla Cina, che rappresenta circa il 15% del suo fatturato. Le autorità locali avrebbero impedito a personale specializzato di lasciare il Paese, mentre i media statali hanno espresso critiche, seppure con toni misurati. È possibile che tutto ciò abbia influito sulle vendite, in calo in Cina per il secondo anno consecutivo.
Quest’anno Apple dovrebbe produrre circa il 15% dei suoi iPhone in India, e i ministri locali affermano che l’obiettivo è arrivare a un quarto della produzione. Ma con i nuovi dazi statunitensi al 26%, il futuro resta incerto.
Apple non è l’unica ad aver spostato la produzione fuori dalla Cina nel tentativo di eludere i dazi.
Nike – di cui Cook è membro del consiglio di amministrazione – oggi produce circa il 50% delle sue scarpe in Vietnam, il resto in Cina, Indonesia e Cambogia. I capi d’abbigliamento provengono dagli stessi Paesi.
[…] I dazi potrebbero essere revocati, e Cook tenterà con ogni probabilità di sfruttare il suo rapporto con Trump per ottenere clemenza, magari attraverso esenzioni o aliquote più basse per alcuni Paesi. Ha già promesso 500 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. Ma la risposta di Trump potrebbe essere una sola: riportare la produzione a casa.
POSSIBILI AUMENTI DI PREZZO DEI PRODOTTI APPLE DOPO I DAZI DI TRUMP
Al momento solo una piccola parte dei Mac più costosi viene assemblata negli Stati Uniti. Per Trump, vedere la scritta “Designed by Apple in California, made in America” sul retro dell’iPhone sarebbe la più grande conferma delle sue politiche.
Zetter è scettico: «Non esiste in tutta l’America un luogo capace di radunare una forza lavoro da oltre 800.000 persone come Foxconn in Cina. Le opzioni attuali per Apple sono estremamente limitate, a parte negoziazioni e richieste di esenzioni.»
Finora, Cook ha saputo destreggiarsi con abilità davanti a un presidente imprevedibile. Ma questa settimana potrebbe rappresentare la sua prova più ardua.
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