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Giampaolo Visetti per “Affari e finanza - la Repubblica”
Per le imprese europee «l’età dell’oro» in Cina è finita e si apre l’epoca segnata dal salto di qualità verso la riqualificazione delle linee produttive e l’alta tecnologia. Il lavoro a basso costo non basta più a generare profitti: solo impianti all’avanguardia, ricerca e sviluppo di prodotti innovativi, forte presenza sul mercato asiatico, giustificheranno nei prossimi anni investimenti cinesi da parte di aziende della zona euro. Il problema è capire se i ricavi riusciranno a superare i costi e questa incertezza moltiplica l’attendismo di multinazionali e medie imprese, accomunate da un crescente pessimismo.
A confermarlo, l’ultimo rapporto della Camera di commercio Ue in Cina, condotto tra 552 aziende europee in collaborazione con Roland Berger. Il 46% delle imprese si è detta certa che la «stagione migliore» in Cina sia scaduta. Il 68% degli imprenditori intervistati «sente la crisi» e vede «condizioni di business più difficili per il 2014». Lo scorso anno l’86% prevedeva di espandere la propria presenza cinese: quest’anno la percentuale è ridotta al 57% e solo un quinto inserisce la Cina tra le più importanti destinazioni di investimento, rispetto a un terzo nel 2012.
Tra i più colpiti del rallentamento di Pechino, il credito, le assicurazioni e gli istituti legali: le banche europee sono scese ad una quota di mercato inferiore all’1,7%. All’apice opposto le aziende che producono farmaci, o macchinari per la sanità, segnate da un 88% di ottimismo. Gli investimenti diretti europei verso la Cina nel primo trimestre hanno toccato quota 1,55 miliardi di dollari, in calo di quasi il 25% rispetto ad un anno fa. Difficoltà di accesso al mercato e barriere normative nel 2013 sono costate alle 552 aziende Ue 21,3 miliardi di euro di reddito potenziale, pari al 15% delle esportazioni annuali.
Il rallentamento della crescita cinese, unito all’aumento del costo del lavoro e al protezionismo, rappresenta dunque un bivio per le imprese europee: una parte congela gli investimenti e aspetta di verificare l’effetto delle annunciate riforme economiche, l’altra rivolge la propria attenzione verso destinazioni estere più competitive. A frenare la fuga, il fatto che la Cina sia il mercato potenziale più ricco del mondo, si appresti a diventare la prima economia del pianeta e a riconquistare l’egemonia sull’intera Asia.
Negli ultimi cinque anni le imprese Ue che hanno generato in Cina oltre il 10% del proprio fatturato globale, è raddoppiato. La tendenza è dunque “ri-delocalizzare” la produzione tra Sudest asiatico, Indonesia, Malesia e Filippine, conservando però l’opportunità del mercato interno cinese. L’operazione è osteggiata da Pechino, che pone con sempre maggior decisione il vincolo del «made in China» quale condizione per il «sold in China».
Imprenditori e investitori europei prendono però atto di un passaggio irreversibile: l’epoca in cui l’Occidente è stato devastato dalla recessione mentre la Cina continuava a crescere a doppia cifra, diventando per tutti la meta obbligata per sopravvivere, è conclusa e il presidio cinese resta importante, ma non indispensabile come lo è stato fino a ieri.
Il sondaggio tra le aziende Ue evidenzia anche aspetti positivi: l’aumento della concorrenza interna rende più competitive le imprese cinesi, alla crescita dei salari corrisponde quella del benessere, le riforme economiche sono ormai vitali anche per la Cina e il rallentamento della crescita non significa che il Pil non continui ad aumentare a ritmi sostenuti. L’ex paradiso diventa cioè un luogo normale: e chi non punta sulla speculazione sa che Pechino, per il business, resta ancora il migliore dei luoghi normali. .......
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