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Anne-Sophie Cathala per Affari & Finanza – la Repubblica
Tadashi Yanai, sessantotto anni, amministratore delegato della capogruppo Fast Retailing e creatore di Uniqlo, ha rilanciato il suo gruppo all' inizio degli anni 80 prendendo le mosse dalla sartoria di suo padre. In quest' intervista commenta la recente espansione di Uniqlo nell' abbigliamento sportivo, ovviamente con un tocco personalizzato.
Al concetto di Sportswear eravamo abituati. In cosa si distingue il vostro Lifewear?
«Sono convinto che i nostri abiti ci permettano di cambiare la vita delle persone, arricchendola. Ci sforziamo continuamente di capire quale può essere il modo migliore per confezionare, sin dalla fase di progettazione, prodotti di qualità curati nei minimi dettagli. È questo il nostro obiettivo: creare i capi più comodi che siano mai stati realizzati. L' aspetto che mi emoziona più di ogni altro non è la promozione dei nostri capi bensì il continuo perfezionamento delle tecnologie a nostra disposizione, che ci permettono di creare vestiti che sono alla portata del maggior numero possibile di persone».
Cosa rende i vostri abiti diversi da quelli di Zara o di H&M?
«Per noi proporre abiti di tendenza significa proporre creazioni comode. I capi di abbigliamento possono avere un aspetto elegante senza però riuscire a far sentire a proprio agio chi li indossa. Guardi la mia giacca: è stata disegnata da Christophe Lemaire, che dirige uno dei nostri studi creativi di Parigi ed è responsabile della linea di abbigliamento U. È molto comoda, così come questo maglione dolcevita. E dire che io non sopportavo i dolcevita. È questo il nostro concetto di abbigliamento. Il mestiere di Zara e di H&M è quello di promuovere e vendere moda. Uniqlo non vende abiti di moda ma capi basici di qualità superiore ai quali aggiungiamo un tocco di contemporaneità, un che di attuale nei colori, nei tagli e nei volumi. Lavoriamo da vicino con gli stilisti che collaborano con noi: Inès de la Fressange, Christophe Lemarie, Jonathan Anderson».
L' anno scorso avete superato Gap diventando terzi a livello mondiale nel settore del prêt-à-porter dopo Zara ed H&M. In che modo vi prefiggete di scalzare i due leader? Modernizzando la produzione?
«Rispetto ad altri settori, la moda non ha ancora raggiunto un livello tecnologico molto alto. Nell' industria automobilistica le tecniche produttive si perfezionano di continuo. Le tecnologie per realizzare i tessuti dei sedili sono più sofisticate di quelle impiegate per i tessuti destinati all' abbigliamento. Occorre assolutamente migliorare la ricerca e i procedimenti di fabbricazione, per produrre abiti ancora più comodi e che siano in grado di fornire una maggiore protezione rispetto agli agenti esterni. Se ciò non accadrà, sarà difficile restare a galla nel nostro settore».
Oltre ad Uniqlo avete altri marchi. Ve ne servirete per promuovere collezioni di fast fashion?
«Proprio così. Uniqlo non appartiene all' universo del fast fashion, a differenza del nostro marchio GU che è nato nel 2006 ed è in forte crescita. Nell' ultimo esercizio finanziario ha registrato ricavi pari a 1,6 miliardi di euro. È il nostro marchio più importante dopo Uniqlo».
Per Uniqlo vi attenete al ritmo produttivo tradizionale che prevede 12 mesi fra la fase di creazione e quella di commercializzazione. Ma per competere con Zara e le sue collezioni a rapido tasso di rinnovamento dovrete forse accelerare i tempi...
«Ci stiamo dando da fare per ridurre i tempi tra la concezione e la commercializzazione. Dobbiamo accelerare ulteriormente. Il nostro gruppo non si occupa specificamente di fast fashion ma per alcuni prodotti, se necessario, siamo già in grado di ridurre i tempi a 1-2 mesi. È una sfida grande ma assolutamente possibile».
Alcune vostre linee ora sono dedicate allo sport. Uniqlo si propone di fare concorrenza ai giganti del settore, Nike, Adidas e Puma?
«Oltre ai nostri centri di ricerca e sviluppo sull' abbigliamento di Ariake in Giappone, Shanghai, Parigi e New York - e a quello sul denim di Los Angeles - abbiamo il centro di Tokyo che si occupa sempre più di sport. Lo sport per noi rientra nel settore Lifewear, perché i capi sportivi non sono riservati esclusivamente all' attività agonistica. Sportswear è sinonimo di casual, di uno stile disinvolto. Noi integriamo tutte queste funzioni in un solo stile: quello della vita di tutti i giorni».
Puntate a diventare il numero tre dello sport dopo Nike e Adidas o ad inaugurare una terza via, a cavallo tra moda e sport?
«Suddividere l' industria dell' abbigliamento in segmenti non ha senso. Sono i marchi che ci impongono di farlo. Quanto ai clienti, essi si muovono unicamente in base al loro budget e possono decidere di acquistare dei capi Uniqlo, un biglietto aereo per Tokyo o un posto a teatro. Ognuno è libero di spendere e vestirsi in base al proprio gusto e al proprio umore, e di esprimere il proprio stile attraverso gli abiti che indossa. Abbiamo ideato il concetto di Lifewear perché sapevamo che il mondo si sarebbe evoluto in quella direzione, in linea con l' evoluzione storica del prêt-à-porter. Siamo stati visionari. Per crescere occorre riflettere su quelle che saranno le aspettative del domani».
A New-York, dove siete presenti da 10 anni, avete stretto una collaborazione con il MoMA. Cosa vi ha spinto a farlo? Il desiderio di riuscire in questo modo ad adattare l' offerta al mercato locale?
«È così. La collaborazione con il MoMA è stata siglata tre anni fa ed è stata già rinnovata. Permettiamo ai nostri clienti di visitare gratis il MoMA il venerdì sera. Ci piacerebbe collaborare con altri musei, come la Tate Modern di Londra e due musei a Parigi, con i quali potrebbero presto concretizzarsi delle occasioni. Il modo di vestirsi di un individuo è immancabilmente influenzato dai suoi "centri di interesse", che ruotano attorno alla cultura e all' arte. Abbiamo chiesto all' artista Jason Polan, assai noto a New York, di illustrare alcune delle nostre T-shirt. Su altre sono riprodotte le illustrazioni di artisti celebri esposti al MoMA, come Keith Haring e Andy Warhol. Sono in vendita nei nostri negozi e all' interno del museo, dove abbiamo un negozio».
Il successo negli Usa è fondamentale per affermarsi come leader mondiale dell' abbigliamento?
«È il mercato più grande del mondo. Per avervi successo occorre comprendere a fondo e celebrare le diverse culture che lo influenzano. Ma seguiamo da vicino le culture locali anche in Europa. Dopo aver consolidato la nostra leadership in Asia, puniamo sull' espansione proprio in Europa e per riuscirvi partiremo dalle città-chiave: luoghi in cui ispirazione e cultura interagiscono e dove il panorama della moda e quello intellettuale hanno raggiunto livelli altissimi».
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