cafonalino mennea

CAFONALINO DEL "TERRONE AFRICANO" - MEGALÒ MALAGÒ CONVOCA MEZZO SPORT ITALIANO PER PRESENTARE LA FICTION SU PIETRO MENNEA - LUCA RIONDINO È L'ATLETA DI FORMIA, PRODUCE LUCA BARBARESCHI E DIRIGE RICKY TOGNAZZI

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Foto Mezzelani - GMT

 

Michela Tamburrino per "la Stampa"

 

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Il tempo, un amico e il peggior nemico di Pietro Mennea. Il tempo da battere, il poco tempo da vivere. Il tempo per fare, poco tempo per dire. Il grande campione era così, una lotta continua a sgretolare un centesimo di secondo, a frantumare i troppi fraintendimenti. Quando correva aveva il volto teso ma rideva dentro. Il suo mito era Tommie Smith con quel pugno nero alzato, Pietro si sentiva nero dentro.

 

Il «terrone africano» è campione olimpico dei 200 metri piani a Mosca 1980 e detentore del primato mondiale della specialità dal 1979 al 1996 con il tempo di 19”72 che resta attuale primato europeo. Avvocato, politico, imprenditore, scrittore, ha amato, ha faticato più degli altri ma la fatica, diceva lui, «non è mai sprecata. Soffri ma sogni». La Freccia del Sud ha ceduto alla malattia il 21 marzo del 2013, a 60 anni.

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ORGOGLIO E SEMPLICITÀ

Oggi si raccontano le sue gesta in una fiction, Pietro Mennea - La freccia del Sud, regia di Ricky Tognazzi, in onda il 29 e il 30 marzo su Raiuno. Una coproduzione Raifiction e Casanova Multimedia, prodotta da Luca Barbareschi che si è riservato il ruolo basilare di Carlo Vittori, l’allenatore, una sorta di padre sportivo, mentre il campione ha il volto ben più regolare di Michele Riondino.

 

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Si parte dalle origini semplici, una famiglia umile ma orgogliosa dai ferrei principi, quelli che caratterizzano tante famiglie del Sud che non possono essere distratte dal superfluo che non conoscono. Le scarpe rotte, i primi dolori di un ragazzino che corre come il vento e batte tutti, persino le automobili.

 

E vince, volto a terra, con quell’immensa concentrazione forgiata dalle lunghe giornate di Formia, dove Pietro si allenava senza sosta. Lontano da tutti, lontano dagli affetti familiari, nella fiction un po’ troppo macchiettistici con una madre restituita da Lunetta Savinio più Cettina di Un medico in famiglia che simile a quella vera come la raccontava Mennea. Perché Pietro si raccontava e non aveva quel carattere burbero che la vulgata gli attribuisce. Era di una generosità infinita e di un’umanità grande, e possedeva anche una raffinata ironia.

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Nella fiction manca un personaggio chiave nella vita di Mennea, un amico più grande di lui, Geppino Nardi, che da Formia lo accompagnava alle gare, che lo amava come un figlio e che lui ricambiava, che addirittura era diventato una presenza scaramantica nella sua vita sportiva e che assistette Mennea per tutto il tempo che fu malato senza mai abbandonarlo un attimo.

 

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Non manca il suo amore per lo studio che gli procurò più lauree; lui chino sui libri, testardo anche lì, puntuale e precisissimo all’appuntamento delle lezioni con un’intelligenza talmente veloce da inorgoglire illustri maestri. Ci sono le incomprensioni con la federazione, le sue prese di posizione nette. Mancano le polemiche post mortem private che non fanno onore a chi le ha create.

 

LA SFIDA DELL’ATTORE

Michele Riondino parla del ruolo come di una sfida, peraltro brillantemente vinta: «Mai avrei lasciato ad un collega un personaggio tanto bello. In qualcosa mi ritengo simile a lui, dopo un attento studio lo posso dire. Ma ho lavorato duramente dal punto di vista fisico, a rischio infarto, per acquisire quella sua corsa tipica».

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Lo ricorda con infinito affetto il presidente del Coni, Giovanni Malagò a un passo dalla lacrima, lui che lo ha conosciuto bene, che lo ha accompagnato nei momenti tristi della malattia, tenuta ben segreta ad amici e parenti. Chissà, si chiede Riondino, «se riusciremmo a riconoscere un Pietro Mennea oggi, con quello che lo sport è ora». Impossibile dirlo come è impossibile immaginare se questa fiction gli sarebbe piaciuta.

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Avrebbe scosso la testa imbarazzato. Lui era così ed è così che gli abbiamo voluto bene.

 

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