Andrea Laffranchi per il "Corriere della Sera"
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Sul pullman con gli Azzurri che lasciano Wembley con in braccio la coppa, domenica notte si cantava - è documentato nelle stories di Marco Verratti - «Più bella cosa» di Eros Ramazzotti. A lui è dedicato l'Artista Day di oggi, l'iniziativa di «Corriere» e «Radio Italia» che ogni due martedì celebra i protagonisti della musica con interviste, speciali e approfondimenti. Un trionfo calcistico internazionale con la colonna sonora di uno che la nostra canzone l'ha portata nel mondo.
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«Sono molto amico di Verratti che già nei giorni scorsi mi mandava video dei loro cori... che bella sensazione. Ho visto la finale in Grecia con amici italiani e polacchi. Una gioia dopo tanta sofferenza, e non intendo solo quella della tensione di una partita cominciata male. Complimenti anche a Berrettini per la finale di Wimbledon e ai Maneskin cui consiglio di rimanere umili. E ora speriamo che le cose vadano bene in tutti i sensi, non solo nello sport e nella musica», racconta Eros in vacanza in Grecia mentre è in radio con Fabio Rovazzi e «La mia felicità» e con in arrivo la prima uscita («Dove c'è musica») di un progetto di rimasterizzazione dei suoi album più importanti.
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Oggi è l'Eros Ramazzotti Day, ma le chiedo di ricordare altri giorni fondamentali nella sua vita. Quello in cui ha capito che avrebbe voluto fare il cantante?
«Avrò avuto 4-5 anni. La musica era in casa: papà cantava e anche il nonno, che non ho mai conosciuto, era musicista. Il momento in cui ho pensato che potesse essere la mia strada fu quando Ravera mi fece fare Castrocaro».
Quello in cui si è sentito «nato ai bordi di periferia»?
«È una sensazione che non muore mai e ti resta sempre dentro. Un'esperienza bellissima che mi ha temprato in positivo. La famiglia, però, è stata fondamentale: mio padre e mia madre sono state le persone giuste per crescere nella maniera migliore. Da quelle parti mi sembra che il tempo sia fermo, vedo gli amici di allora che hanno vite semplici e felici, ogni tanto mi vengono a trovare in giro per il mondo. Proprio loro mi hanno dedicato un murales sulla facciata di una casa vicino a quella dove sono nato e cresciuto: lo hanno inaugurato a ridosso del primo lockdown e non vedo l'ora di poter andare a vederlo».
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Il giorno in cui la pandemia le ha fatto saltare l'ultima data del tour mondiale a Los Angeles che ha pensato?
«Che siamo stati fortunati perché, a differenza di altri, siamo riusciti a fare tutte le date tranne quell'ultima. Per la musica spero che riparta tutto, piano piano, ma sembra che ci siamo... Tornando a quei giorni ricordo la paura. Eravamo a Cancun durante una pausa e, vedendo quello che iniziava ad accadere in Italia, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio tornare dalle nostre famiglie. Siamo rimasti bloccati qualche giorno per questioni legate ai voli. Sapevo i miei stavano bene, anche se il fatto che fossero in Franciacorta, vicino alla zona più colpita, mi preoccupava. Durante la pandemia la mia creatività si è allargata, ho scritto 60 brani per il nuovo album che uscirà nel 2022: il virus mi ha dato la spinta per migliorarmi».
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Il giorno in cui ha capito che dalla periferia era arrivato al tetto del mondo?
«Cuore e testa sono ancora lì dove sono nato. Non ho mai pensato "sono il numero 1". Però ricordo con piacere i racconti di viaggio estremi del mio manager Roberto Galanti: una volta tornò dalle montagne intorno a Teheran e mi disse che anche lì aveva sentito le mie canzoni».
Il giorno in cui ha temuto di non essere più Eros?
«Anche se non vendo più i dischi di prima non è un problema. Però ho ritrovato la strada giusta, la stessa di 10-13 anni fa, che è quella di creare una squadra. Avevo lasciato da parte quel modo di lavorare, forse mi sentivo appagato e ho frenato un po'».
Il giorno in cui si è pentito di qualcosa?
«Mi capita quando tratto male qualcuno e lo mando a quel paese. Succede a volte in auto, ma ci resto male. Sono uno cui piace stare in un angolo senza essere invadente. E anche se chi mi chiede un selfie mentre mangio è maleducato, mi alzo e lo faccio. Al limite si fredda la pasta».
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Il giorno delle lacrime?
«Quando se ne è andata mamma. È stata dura perché purtroppo non potevo essere lì con lei. Quando era in vita me la sono goduta. E se la parte artistica viene da papà, il carattere forte l'ho preso da lei, calabrese doc».
Il giorno del «no» che le è costato di più in carriera?
«Negli anno 90 Clive Davis (uno dei discografici più influenti della storia ndr ) mi voleva a New York per lanciare la mia carriera in America. Ma avevo bisogno di stare in famiglia con Michelle, Aurora stava per arrivare... Gli direi ancora no. Non sono uno che cerca il successo».
Quello del «no» privato?
«A Monica Bellucci. Era un momento in cui sia lei che io eravamo liberi. È rimasto un bel ricordo».
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