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    “CANCELLEREI LA CATEGORIA DELLA BLACK MUSIC” - WYNTON MARSALIS, IL TROMBETTISTA EREDE DI MILES DAVIS, LE SUONA A CHI VUOLE ETICHETTARE LA MUSICA: “DIRE CHE JAZZ E BLUES APPARTENGONO SOLO AI NERI È COME SOSTENERE CHE LA PASTA E L'OPERA SONO RISERVATI AGLI ITALIANI - IL GENERE MUSICALE PIÙ RAZZISTA? IL RAP DEI NERI AMERICANI DI OGGI: PSEUDO CANTANTI CHE CHIAMANO TUTTI "NEGRI" E "PUTTANE" E PARLANO SOLO DI SOLDI E ARMI. LA MIA GENTE NON È QUESTA ROBA QUI. QUESTA È QUESTA SPAZZATURA…” - VIDEO


     
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    Carlo Melato per “La Verità”

     

    wynton marsalis wynton marsalis

    «Purista», «neoclassico», «retrogrado», «conservatore». In un crescendo rossiniano la critica jazz è arrivata a definire Wynton Marsalis un «reazionario». Il suo peccato?

    Aver percorso un tragitto all'indietro, «in direzione ostinata e contraria» rispetto alle avanguardie, al free, all'innovazione costante.

     

    Un ritorno a Itaca, che per il trombettista classe 1961 coinciderebbe con la New Orleans di Louis Armstrong e di suo padre, Ellis (portato via dalla prima ondata di Covid, all'età di 85 anni), pianista e capostipite di una famiglia di musicisti, cresciuta a pane e marching band sulle rive del Mississippi.

     

    wynton marsalis carlos henriquez wynton marsalis carlos henriquez

    Se il suo talento puro non viene mai messo in discussione (fu Art Blakey tra i primi a notarlo, facendolo entrare nei Jazz Messenger, dal 1980 al 1982), il re dei «giovani leoni dell'hard bop» ha scelto di non difendersi dalle accuse, anzi, le ha considerate medaglie al valore.

     

    Mentre i riconoscimenti ufficiali hanno iniziato a piovergli addosso: Marsalis è stato il primo musicista jazz a vincere il Premio Pulitzer per la musica nel 1997 con Blood on the fields, dopo essere stato il primo ad aggiudicarsi in un colpo solo, nel 1983, un Grammy per la classica e uno per il jazz. Ma soprattutto, nel 1991, da jazzista di lotta è diventato jazzista di governo, ottenendo il posto di direttore musicale del programma Jazz at Lincoln center di New York, dove da più di 30 anni - e con una potenza di fuoco e di mezzi invidiabile - porta avanti un'attività concertistica, divulgativa e formativa da vero stakanovista.

    wynton marsalis 7 wynton marsalis 7

     

    Il suo obiettivo, sempre secondo i critici, è quello di far entrare il jazz all'interno della cultura ufficiale americana, dopo averlo ripulito da ogni nuova idea nata dopo i primi anni Sessanta o, peggio ancora, dalle contaminazioni elettriche, rock e funk. Limitando anche il contributo storico che le culture e le tradizioni diverse da quella afroamericana hanno dato al jazz.

     

    Giudizi troppo severi? Ai posteri (e ai musicologi) l'ardua sentenza Di sicuro le polemiche e le domande scomode non spaventano il trombettista dal suono pieno e dalla lingua tagliente, che è pronto a riprendere il tour negli Stati Uniti dopo due date sold out in Europa. La prima in Italia, al 70° Festival di Ravello (con i suoi amici Dado Moroni, Stefano Di Battista e Francesco Ciniglio). L'altra a Marciac, in Francia.

    francesco ciniglio francesco ciniglio

     

    Mister Marsalis, a Ravello l'abbiamo vista suonare con una formazione made in Italy, a eccezione del contrabbassista del Bronx, Carlos Henriquez.

    «Con l'Italia ho una relazione profonda, iniziata grazie a Vivaldi e a tutta la vostra musica barocca. Mentre nel campo del jazz sulla mia strada ho incontrato musicisti italiani incredibili. A partire da quelli della mia generazione, come Dado Moroni (pianista, ndr) e Stefano Di Battista (sassofonista, ndr).

    francesco cafiso francesco cafiso

     

    Dado ha una conoscenza profonda della musica e dei suoi maestri, purtroppo passati di moda, come Earl Hines. È un'artista con una grande anima e una grande integrità. Stefano invece è il Virgilio che mi fa scoprire le chicche della musica italiana come Caruso di Lucio Dalla, che abbiamo eseguito a Ravello. Dove, con mio grande piacere, abbiamo anche riservato un tributo al più grande compositore di musica da film: Ennio Morricone. In Italia comunque avete delle nuove leve di grande interesse».

     

    julius farmer julius farmer

     Le va di fare qualche nome?

    «Due classe 1989 su tutti: il batterista Francesco Ciniglio. Adoro suonare con lui e consiglio di ascoltare la sua Locomotive suite. E il sassofonista Francesco Cafiso. Quando aveva 13 anni l'ho scoperto in Sicilia e l'ho portato con me in tour per tutta Europa. He' s my man Oggi cammina con le sue gambe, ma mi ha fatto morire dalle risate.

     

    A New Orleans comunque i musicisti italiani sono sempre stati di casa. E ricordo anche che mio padre suonava con un bassista formidabile, che un giorno salutò tutti e partì per il vostro Paese (all'epoca era dall'altra parte del mondo conosciuto).

     

    john coltrane john coltrane

    Quando tornò parlava una strana lingua». (ride). Chi era? «Julius Farmer (scomparso nel 2001, Farmer è presente ne L'era del cinghiale bianco di Franco Battiato, negli album di Tullio De Piscopo e Sergio Caputo, ed è suo il basso nella sigla di Ufo robot, ndr). Scherzi del destino: Julius ha suonato in uno dei primi dischi di Dado Moroni.

     

    E, se vogliamo chiudere il cerchio, non dovete dimenticarvi che nel primo disco di jazz della storia (un 78 giri del 1917 che conteneva Livery stable blues e Dixie jass band one step, ndr) ci sono due italiani di New Orleans: il cornettista Nick La Rocca e il batterista Tony Sbarbaro».

     

    A proposito del contributo degli italiani (e non solo) alla nascita del jazz, nel suo libro, Come il jazz può cambiarti la vita, lei smonta un equivoco: «Il jazz non è una musica razziale», scrive, dopo aver affrontato il tema del razzismo in America. «La suonano e l'ascoltano tutti. L'hanno sempre fatto».

    miles davis miles davis

    «Confermo. E le dirò di più: io cancellerei completamente una categoria che continua a essere usata e abusata: "black music"».

     

    Potrebbero essere appunti utili per chi di questi tempi parla di «appropriazione culturale» a casaccio. Nei giorni scorsi, in Svizzera, un gruppo reggae di bianchi è stato fermato per aver osato suonare «la musica dei neri».

    «Guardi, dire che jazz, blues e altri generi fanno parte della "black music" e quindi appartengono solo ai neri è come sostenere che la pasta e l'Opera sono capolavori riservati agli italiani. Se si facesse lo stesso ragionamento con la "white music" qualcuno si offenderebbe E se proprio vogliamo parlare di discriminazione, lei lo sa qual è oggi il genere musicale più razzista in assoluto?».

     

    Me lo dica lei.

    WYNTON MARSALIS WYNTON MARSALIS

    «Il rap dei neri americani di oggi. È il minstrel show dei nostri tempi (gli spettacoli che negli Stati Uniti degli anni Trenta del XIX secolo mettevano alla berlina le persone di colore, rappresentandole in modo caricaturale, ndr)».

     

    Addirittura?

    «Certo, le farebbe piacere vedere la sua comunità rappresentata da questi pseudo cantanti che chiamano tutti "negri" e "puttane", che parlano solo di soldi e armi? Non credo.

     

    La mia gente non è questa roba qui. Non voglio generalizzare, perché in ogni ambito ci sono persone creative e di valore. Ma la maggior parte dei prodotti commerciali rap e hip hop che passano alla radio e in tv fanno parte di questa spazzatura».

     

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    Tornando al suo genere, secondo lei il jazz a un certo punto della sua storia ha perso la bussola e per questo occorre tornare alle origini? Quando la definiscono un «conservatore» si offende?

    «Non esiste il momento preciso in cui la musica si è persa, perché la vita dipende sempre dalle scelte personali. E in tutte le epoche la buona musica convive con quella cattiva.

     

    Ogni giorno ciascuno di noi può prendere la strada che consente di fare più soldi, quella per diventare amici di qualcuno, quella per farsi accettare dalla comunità intellettuale o quella per stare bene con la propria coscienza».

     

    Si riferisce a qualche musicista in particolare? In passato lei non ha risparmiato critiche affilate a dei mostri sacri del calibro di Miles Davis e John Coltrane.

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    «Non voglio parlare dei casi singoli e non si tratta di problemi personali con Miles o Trane. Pensi che il disco che mi ha convinto a fare il musicista è stato Giant Steps (album di Coltrane del 1960, ndr) e conservo una foto di John con mio padre.

     

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    Restiamo sulle scelte individuali: nessuno di noi può scappare dalle sue responsabilità e serve una certa acutezza per fare la scelta giusta. Le strade possono sembrare tutte uguali, ma non lo sono. Anche a Mosè non venne concesso di entrare nella Terra promessa a causa delle sue scelte. Ed era Mosè».

    WYNTON MARSALIS WYNTON MARSALIS

     

    Sul conservatore però non mi ha risposto.

     «Di solito il rivoluzionario è un solitario che va controcorrente. In questo caso sono io a essere rimasto solo, eppure mi danno del conservatore Evidentemente quelli che mi criticano e che stanno con la massa sono tutti dei rivoluzionari. Non è curioso?».

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