• Dagospia

    CANESTRI PULITI - LE TRAME DEL PSI PER FAR VINCERE LO SCUDETTO 1989 ALLA PHILIPS MILANO - IL CLUB ERA SULL’ORLO DEL CRAC E CRAXI, PILLITTERI, DE MICHELIS (ALLORA A CAPO DELLA FEDERBASKET) SCESERO IN CAMPO - PESARO E LIVORNO ANCORA SI LAMENTANO DELLO “SCIPPO”


     
    Guarda la fotogallery

    Emiliano Liuzzi e Fausto Nicastro per “Il Fatto Quotidiano

     

    Craxi Meneghin Craxi Meneghin

    Lo scudetto s’aveva da assegnare a Milano. La società era sull’orlo del fallimento, non potevano permetterselo né Bettino Craxi, ancora in tutto il suo splendore, né Paolo Pillitteri che era suo cognato e della città da bere era il sindaco. Non poteva farlo accadere Gianni De Michelis, presidente della Federazione pallacanestro e che, in quel 1989, era anche il vicepresidente del Consiglio dei ministri e di lì a breve sarebbe diventato ministro degli Esteri.

     

    E alla fine lo scudetto arrivò, strappato prima dalle mani della Scavolini Pesaro, poi della Enichem Livorno. Dopo riunioni di palazzo, l’interessamento di De Michelis, Pillitteri e Carlo Tognoli, triade di un’Italia dove Mani Pulite era solo a ridosso, le finali per lo scudetto presero un’altra forma. Come nel calcio, più del calcio.

    Gianni De Michelis Gianni De Michelis

      

    Non fu un’impresa facile e ci volle tutto il potere che il Psi gestiva. Ma accadde. La Philips Milano aveva già perso la semifinale a Pesaro, squadra di un altro notabile di quegli anni, il democristianissimo Arnaldo Forlani, ma ci pensò una manina a far arrivare sulla testa di Dino Meneghin una monetina.

     

    Il gigante cadde, partita a tavolino alla Philips. Mancava lo scoglio Livorno, ultima gara sul parquet del PalaMacchia, via Allende: a fil di sirena è un canestro di Andrea Forti che cuce sulla maglia di Livorno, almeno virtualmente e per una manciata di minuti, lo scudetto. Ci pensano i giudici di gara a dire no. Il tempo era scaduto, il canestro non è valido. Vince Milano. L’evidenza della prova televisiva servì a poco. Così era stato deciso.

      

    Una storia sepolta negli annali della pallacanestro dove non giravano miliardi , ma molto talento. Eppure la puzza di marcio si sentiva anche da lontano. A disseppellire il giallo è un magistrato autorevole, andato in pensione da presidente del tribunale di Rimini: si chiama Pierfrancesco Casula e in un libro dal titolo Lgm, Lessico giudiziario minore, che scrive, nero su bianco, che a Pesaro prima e Livorno dopo una settimana decise la politica, non il campo. Meneghin, colpito da una monetina, era assolutamente in grado di proseguire la partita, ma le “malefatte sono da riportare a giocatori, dirigenti, lanciatori di monetine, giudici sportivi”.

    PAOLO PILLITTERI FOTOGRAFO PAOLO PILLITTERI FOTOGRAFO

     

    Una ricostruzione dettagliata quella di Casula che parla di una riunione in un ufficio di un non meglio precisato ministero dove chi governa la pallacanestro – allora il presidente della Lega era il ministro ballerino De Michelis e il conduttore Jerry Scotti, socialista anche lui, controllava invece l’area femminile – decide di far fuori le provinciali, Pesaro prima e Livorno dopo. Non sarebbe stato difficile, alla fine non lo fu.

      

    “Io questo non me lo ricordo”, dice Paolo Pillitteri al Fatto Quotidiano che era il re indiscusso di Milano, il sindaco-cognato, come lo chiamavano, visto che sposò la sorella di Bettino Craxi. “Ero un tifoso, lo sono ancora oggi, ma credo improbabile una manovra dei palazzi per far vincere lo scudetto a Milano. Se ci fu una trattativa io non ero presente”.

     

    CARLO TOGNOLI CARLO TOGNOLI

    Più esplicito Guido Carlo Gatti, all’epoca general manager della Scavolini: “Milano navigava in cattive acque”, ha detto in un’intervista al Resto del Carlino, “la società rischiava il fallimento e il mondo del basket non poteva permetterselo. Io sono sicuro di una cosa: la monetina in campo venne lanciata con l’obiettivo di far capovolgere dalla giustizia sportiva quello che sarebbe stato il verdetto del campo”.

      

    Quello di Livorno resta lo scudetto mai assegnato. Doveva andare a Livorno, non ci sono dubbi, aveva un quintetto da nazionale, il miglior allenatore in circolazione, il pubblico più caldo. La finale naturale era Pesaro contro Livorno, le provinciali del basket che s’erano fatte adulte. Ma tutte le favole non arrivano al lieto fine.

    Arnaldo Forlani Arnaldo Forlani

      

    Così per venti minuti Livorno fu campione. Ma quando arrivò la percezione di un già tutto deciso a tavolino era ormai tardi. Proviamo a rispolverare quella finale che segnerà uno spartiacque tra lo sport che era stato la pallacanestro e quello che sarebbe diventato il basket americanizzato. Nel palazzetto, quel 27 maggio, l’aria è tesa.

     

    A spezzare l’equilibrio sono due bombe di Roberto Premier e una di Albert King, che fanno guadagnare nove punti a Milano. I livornesi non ci stanno e recuperano: a trentaquattro secondi dalla fine si portano sull’85-86. L’azione è ripresa dal Milano, con un altro grande veterano, l'americano Mike D’Antoni. Pressato, scarica su Roberto Premier, che sbaglia. Alessandro Fantozzi, play di Livorno, recupera e trova Andrea Forti tutto solo sottocanestro: stop e tiro immediato. Il palazzetto esplode.

     

    DINO MENEGHIN DINO MENEGHIN

    L’arbitro Grotti, il più vicino all’azione, convalida il canestro mentre i tifosi livornesi invadono il campo e festeggiano. Il tavolo dei cronometristi conferma il canestro, il tabellone luminoso viene aggiornato con i due punti in più per Livorno. C’è chi esulta e chi, come Premier, molla schiaffi ai tifosi avversari prima di andarsene dal parquet con il dito medio alzato. Ma venti minuti dopo i cronometristi raccontano un’altra partita: canestro non valido, lo scudetto va a Milano.

    Guarda la fotogallery


    ultimi Dagoreport