Mario Sconcerti per “La Lettura – Corriere della Sera”
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Quando nacque la Nazionale non fu accompagnata da un allenatore, come sembrerebbe oggi normale. Era un tempo di grandi movimenti, il mondo stava cambiando rapidamente, quindi anche con diffidenza. Non era facile prendere decisioni nette come formare una squadra che rappresenti il proprio Paese.
Non si scelse un uomo, si scelse una commissione. Forse si farebbe così ancora oggi. Allora fu naturale. Fino alla guerra di Hitler ci fu un unico commissario tecnico, Vittorio Pozzo, interrotto e più volte sostituito da commissioni di cinque o sette elementi tra cui tutti i rappresentanti del calcio nascente. Dirigenti, arbitri, calciatori, giornalisti, i quali a turno si prendevano la briga di farsi anche allenatori, non essendoci ancora il titolo e tantomeno le competenze.
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L'uomo che per una quindicina di anni fu il più importante in queste commissioni si chiamava Umberto Meazza, era nato a Casteggio, provincia di Pavia, nel 1880 e morì a Milano ad appena 46 anni, dopo aver costruito la parte terza del calcio, come ad esempio gli arbitri. Fu lui a decidere le prime 32 formazioni dell'Italia dal 15 maggio di quella primavera del 1910, partita e successo contro la Francia, fino al 1924, una vita dopo, da un governo liberale al delitto Matteotti, passando per una Grande guerra. Meazza e la sua commissione scelsero il primo capitano dell'Italia.
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Giocava ancora con le maglie bianche perché il bianco costava 70 centesimi meno delle maglie colorate. Non bisogna meravigliarsi. Il calcio nasce povero e naturale, i giovani uomini semplicemente rincorrono una palla così come sono vestiti, non c'è bisogno di altro. I liceali che fondarono la Juve scelsero il rosa perché lavandolo era il colore che sbiancava di meno. I ragazzi della Pro Vercelli giocavano in camicia bianca, niente più, perché una camicia bianca l'avevano tutti nei cassetti.
Umberto Meazza scelse come primo capitano un siciliano di Riposto, il porto dell'Etna, un grosso paese della Sicilia orientale sullo Ionio. Si chiamava Francesco Calì, veniva da una famiglia di commercianti di vino e costruttori di botti. Un attacco di pirati africani aveva costretto la famiglia ad emigrare in Svizzera, dove Calì cominciò la carriera. Quando tornò andò al Genoa, poi fu tra i fondatori dell'Andrea Doria. Oggi ha una via a suo nome sia a Riposto che a Genova, dietro lo stadio.
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Il re dei capitani italiani è Gigi Buffon. È il re di tante cose nel calcio, recentemente la Fifa ha pensato sia stato il miglior portiere della storia, ma sono decisioni difficili da ufficializzare. Comunque Buffon è l'italiano che ha giocato più partite in Nazionale, 176, e con più presenze da capitano, 80. Secondo è Cannavaro con 79, terzo Paolo Maldini con 74. Già da questi primi numeri comincia a delinearsi una caratteristica sicura, dimostrata. Il capitano viene scelto molto spesso tra i difensori, portieri compresi. Seguono a distanza i centrocampisti, molto più lontani gli attaccanti.
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Gli esempi sono evidenti. Nella classifica dei capitani i primi sette sono o portieri o difensori puri. Nei primi 22, cioè fino ai giocatori con nove presenze da capitano, ben 15 sono della prima categoria, cinque i centrocampisti, appena due gli attaccanti. C'è un motivo? Ce ne sono molti. Il primo è matematico, i difensori sono numerosi, hanno almeno cinque presenze negli undici di base. I centrocampisti e gli attaccanti solo tre. Rarissimi sono i giocatori laterali, soprattutto le ali di attacco.
Perché il capitano è un conducente e un controllore, per fare il suo mestiere deve stare nel cuore del gioco. Il ruolo inoltre spesso descrive il carattere. Un difensore è sempre razionale, non pensa da artista. Un'ala gioca sullo scatto e sulla fantasia, deve saltare l'uomo, quindi forzare la giocata. È un altro mestiere. Il centrocampista va già bene, ma è un ruolo rischioso. Il capitano ha il doppio delle punizioni di un giocatore normale, un regista è meno sostituibile di qualunque difensore.
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Ma di chi quasi si diffida sono i numeri dieci, gli artisti per definizione. Gli unici due attaccanti che si trovano tra i primi ventidue, sono Meazza e Piola. Il primo numero dieci è Del Piero al venticinquesimo posto con solo sette presenze. Rivera e Mazzola insieme non arrivano a dieci presenze, segno che nessuno li ha mai pensati veramente da leader. Di Totti non c'è traccia, nemmeno una presenza. Il dieci è un solista. O ha l'anima di Maradona, Pelé e Cruyff, o deve pensare ad altro.
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Il tempo ha poi cambiato il ruolo. Oggi un capitano ha meno bisogno di allenare in campo, ha più titolo dentro lo spogliatoio.
È un giocatore capo. Per questo le tante volte di Buffon e Zoff, anche se sono lontani da qualunque zona del campo: perché hanno fascino, mestiere, fisico, s' impongono sul gruppo più che sul campo.
Hanno esperienza e sempre più anni degli altri, perché in quel ruolo si invecchia meglio. Nessuno è però mai riuscito a vincere due grandi titoli da capitano. Nessuno è andato oltre una grande vittoria. In novant' anni di Mondiali e sessant' anni di Europei i capitani ad avere vinto sono appena sette. In ordine cronologico Combi e Meazza ai Mondiali, Foni all'Olimpiade del 1936, poi Facchetti nel 1968 agli Europei di Roma, Zoff nell'82, Cannavaro nel 2006 e Chiellini nel luglio scorso. Buffon e Zoff hanno avuto più occasioni di tutti, ma sono passati dal primo posto all'ultimo con grande leggerezza. Ma questa è l'eterna storia di chi gioca con la palla su un prato. Non si è mai davvero colpevoli. La palla va comunque dove vuole.
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