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    “CARLA LEWIS”: QUANDO IL FIGLIO DEL VENTO FU MESSO SUI TACCHI A SPILLO DA ANNIE LEIBOVITZ - SONO PASSATI 25 ANNI DALLA SCANDALOSA CAMPAGNA PIRELLI: I TABLOID E GREG LOUGANIS, CAMPIONE OLIMPICO DI TUFFI, SIEROPOSITIVO, GLI DIEDERO APERTAMENTE DEL GAY – L’AMERICA PURITANA ANDO' IN TILT PER L'UOMO PIU' VELOCE DEL MONDO. E ANCORA OGGI QUELL'IMMAGINE FA SCANDALO - AUDISIO REPORT - VIDEO


     
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    Emanuela Audisio per “il Venerdì - la Repubblica”

     

    Solo lui poteva farlo. E lo fece.

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    Ma assomigliava a un tentativo di suicidio. «Annie Leibovitz mi chiamò e mi parlò della sua idea. Tutti gli altri mi imploravano: non farlo, davvero, non puoi». Era il 1994. Lui era il numero uno, il dio della velocità, il nuovo Owens. L' uomo dei record. Per convincerlo, la fotografa americana volò a Houston. «Mi guardò in faccia, disse che era un messaggio molto forte, non le importava cosa pensassero i miei manager o mia mamma, non dovevo ascoltare. Va bene, le risposi, se tu ne sei convinta, facciamola». Si trattava, per dirla in slang, «to do an ad in pumps».

     

    E così venticinque anni fa Carl Lewis si mise in posizione di sparo: mani a terra, sedere in alto.

    C' era solo un particolare: i tacchi a spillo rossi. Solo che Lewis non era una signora, ma l' uomo più veloce del mondo, 43,373 chilometri all' ora nei cento metri. Il simbolo dell' atleta perfetto: classe, versatilità, stile. Molto chiacchierato, ma molto vincente. E quell' immagine era molto più di un manifesto, quasi un coming out, giocava sull' ambiguità, anzi su un tabù, quello della sessualità.

     

    In anni in cui perfino il cantante George Michael teneva la sua omosessualità nascosta. Lewis sembra sussurrare: e se anche lo fossi? In più c' era lo slogan Pirelli: la potenza è nulla senza il controllo. Altro doppio senso: come si poteva andare veloci con i tacchi a spillo?

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    Era una campagna pubblicitaria di rottura, c' è chi gridò allo scandalo, chi ancora peggio, denigrò, perché si sa che il sarcasmo non costa niente. In Inghilterra bastò un giorno di affissione perché il Daily Mirror sparasse la foto su due pagine, accompagnandola con il titolo: «Carla Lewis». Finalmente Lewis si era smascherato, la scelta di salire sui tacchi a spillo era stata molto più di un lapsus freudiano, quasi un' evirazione. A provocarlo c' era già stato il decatleta britannico Daley Thompson che nell' 84 ai Giochi di Los Angeles si era presentato in pista con una T-shirt con la scritta: «Il secondo atleta più forte del mondo è gay?».

     

    Naturalmente, il primo era lui. Poi c' era stata la dichiarazione di Greg Louganis, americano, campione olimpico di tuffi, sieropositivo: «Lewis è molto più gay di me».

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    La fortunata campagna pubblicitaria (il poster è stato giudicato tra i 100 più belli del secolo) era stata creata dell' agenzia Young & Rubicam di Londra. Massimo Costa, allora account director, ricorda che il merito fu di un team eccezionale, dell' imput di Marco Tronchetti Provera della Pirelli, messaggio chiaro e forte, e della creatività di un ragazzo di 22 anni, un rookie, Ewan Paterson, che stava muovendo i primi passi in quel mondo e a cui venne l' idea della potenza senza controllo.

     

    Costa racconta: «Ci voleva coraggio intellettuale, amore del rischio, voglia di stupire, e un grande lavoro di squadra». Metteteci anche Annie e Carl e venticinque anni dopo quella campagna urla ancora.

     

    Non era adatta a tutti, e infatti Carl Lewis non era tutti. Soprattutto non aveva paura di rovinare la sua immagine in un Paese puritano che si era mantenuto a distanza di sicurezza, sospettosa del suo amore per i body e per i lucidalabbra.

     

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    Tra lui e l' America più di dieci anni di grande freddo e l' accusa: non abbastanza nero, troppo dandy, troppo poco maschio, troppo antipatico, troppo predestinato. Un Grande Gatsby che si era meritato la battutaccia di Reagan che in campagna elettorale andò a chiedergli il voto: «Ho fatto molto per voi». Lewis: «Per noi neri?». Reagan: «No, per voi ricchi».

     

    Uno che era stato ricoperto di fischi quando, convinto di poter fare Michael Jackson, andò a cantare, vestito di paillette argentate, in una partita Nba, e stonò così tanto che tutti si misero le mani sulle orecchie. Quello che a Barcellona nel '92 andò con un giro d' onore a cercarsi gli applausi, mentre si stava disputando la semifinale dei 5.000 metri, e si beccò un coro di offese e di scansati, ridicolo.

     

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    BEN JOHNSON BEN JOHNSON

    Lewis era sospetto: non si faceva vedere con le donne, non cercava complicità, non temeva gli avversari, tanto erano figli di un dio minore, un salto e via, subito a casa, senza nemmeno aspettare la prova degli altri. Carl volava sul mondo a suo modo, dieci anni senza una sconfitta. Lui era diverso.

     

    Doveva far passeggiare il suo cane Ramsete, dare l' acqua ai fiori del giardino, sistemare la collezione di cristalli Baccarat, occuparsi della sua dieta vegetariana, e anche rispondere alla signora Clinton che lo chiamava dall' aereo. Al funerale del padre, nella bara, Carl aveva messo il suo primo oro olimpico, non come atto di generosità, ma come gesto di supremazia, nella certezza che «te lo giuro papà la rimpiazzerò con un' altra».

     

    Lui non si nascondeva, l' umiltà non era tra i suoi difetti, celebre la sua frase: «Gli altri migliorano, noi Lewis siamo già perfetti». L' altra grande star dello sport Usa, Michael Jordan, mago dei canestri, nei suoi spot non provocava, anzi era un testimonial rassicurante: «Be like Mike». Giocava e si dissetava. Tutti volevano essere Jordan, non si rischiava il ridicolo. Ma invece chi voleva essere Lewis?

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    E così quello che poteva essere un suicidio (assistito) dopo 25 anni è ancora una campagna vincente. E identità della Pirelli, che festeggia l' anniversario con una serie di attività creative, video (sempre Young & Rubicam), e testi di tre scrittori che interpretano il concetto di «Power is nothing without control»: Lisa Halliday, per il mondo dell' arte, Adam Greenfield per la tecnologia, J.R. Moehringer per lo sport.

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    Lewis oggi ha 58 anni, è stato il post Owens e il pre Bolt: primo oro a Cinque Cerchi nell' 84, l' ultimo nel '96. In tutto nove medaglie d' oro olimpiche e un argento, tre record mondiali. Diciassette anni di grande carriera, ma anche di commenti sarcastici, di sussurri e grida. È ricco, sta sempre molto per conto suo, non partecipa alla riunioni dell' atletica, ma è stato testimonial per la Fao.

     

    Se per gli altri «quella» fu una trasgressione, per lui fu «my way», il suo modo di partecipare, senza curarsi del (pre)giudizio degli altri. «Con me il gioco è sempre stato quello: farmi passare per quello che non ero, solo perché cercavo di essere qualcuno anche fuori dallo sport. E ci sono riuscito: il cartellone della Pirelli con me in tacchi a spillo non verrà mai dimenticato».

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