Davide Chinellato per “gazzetta.it”
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“Caro basket, sono pronto a lasciarti andare”. Kobe Bryant alla fine del 2015-16 sarà storia. La 37enne leggenda dei Lakers ha annunciato che questa stagione sarà la sua ultima in Nba. “Mi hai fatto vivere il mio sogno di diventare un Laker e ti amerò per sempre per questo.
Ma non posso amarti più con la stessa ossessione - ha scritto il Black Mamba nella poesia dedicata al basket, pubblicata da The Players Tribune, in cui ha annunciato il suo ritiro -. Il mio cuore può sopportare la battaglia, la mia testa può gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è il momento di dire addio. Questa stagione è tutto quello che mi resta”.
LA LEGGENDA — Nel cuore di ogni tifoso di basket, le parole d’addio di Kobe hanno spento qualcosa. Perché Bryant, negli ultimi 20 anni, è stato il posto sicuro in cui rifugiarsi ogni volta che si aveva voglia di NBA, una di quelle bandiere per cui fare il tifo anche se sulla sua canotta, prima la numero 8 e poi la numero 24, c’è sempre stato scritto Lakers.
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Ma Kobe era Kobe, con quello spirito combattivo forgiato dall’infanzia in Italia, quell’ossessione di vincere sempre che hanno solo i grandissimi, quelle mosse “rubate” a Michael Jordan, prima mito e poi mentore del Black Mamba.
Ci ha provato Bryant a sconfiggere Padre Tempo, ma si è rivelato uno dei pochi avversari che è riuscito a frenarlo: perché a 37 anni l’età gli ha presentato il conto, e quel corpo che “sa che è il momento di dire addio” è usurato da mille battaglie e non può reggere il peso della sua iper competitività, della sua fame atavica di vittorie, della sua voglia insaziabile di essere il migliore ad aver mai giocato.
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L'ADDIO — Ci ha girato attorno per un po’, Kobe, alla parola che non voleva pronunciare: addio. Aveva detto di non volere un lungo saluto, che avrebbe deciso a fine stagione, ma tutti gli indizi portavano a un’inevitabile ultima corsa sul viale del tramonto. Non per un contratto in scadenza a fine giugno, ma perché quello con addosso la 24 dei Lakers non sembrava più lui.
Aveva sempre la scritta Bryant sulla schiena, ma pareva un altro, una versione vecchia e stanca di un campione affamato che vorrebbe ma non può più, che vomita tiri dal campo come se non sapesse più dov’è il canestro e non “il più forte giocatore della mie generazione”, come l’ha accolto Dwyane Wade qualche settimana fa a Miami nell’inizio ufficioso del suo tour d’addio.
Ci ha provato Kobe a smarcarsi dal suo avversario più pericoloso, a disorientarlo con una finta, a seminarlo in contropiede, a punirlo con un tiro impossibile, quelli per cui si esercitava da bambino con i calzini arrotolati del padre.
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Ma ha capito che Padre Tempo è l’unico difensore che nella sua carriera non riuscirà a battere. E per questo ha deciso che questa sarà la sua ultima stagione, che questi ultimi mesi saranno un lungo addio di cui gustare fino in fondo ogni momento.
I NUMERI — Il 13 aprile, quando le luci dello Staples Center di Los Angeles si spegneranno dopo la sfida tra Lakers e Utah che chiude la regular season gialloviola, Kobe Bryant diventerà storia. E la sua sarà quella di uno dei migliori ad aver mai giocato in NBA.
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Terzo nella classifica dei realizzatori, dietro solo a Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone; 5 anelli; il premio di mvp 2008; quello di migliore delle Finals 2009 e 2010. E 20 anni sempre con la stessa maglia, quella dei Lakers, il suo sogno da bambino.
Quella che si è cucito addosso una sera di fine giugno del 1996 e che non si è più tolto, nonostante tutto: il talento, l’inizio in panchina, le incompatibilità con Shaq, i mugugni, le tantissime vittorie, quell’insaziabile voglia di vincere e di migliorarsi, le troppe sconfitte degli ultimi anni.
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Ma Kobe ha ancora qualcosa da dimostrare, e in questi ultimi quattro mesi e mezzo della sua vita da giocatore Nba punterà a togliersi qualche soddisfazione. In fondo, a quel suo corpo usurato da mille battaglie, resta ancora “questa stagione”.
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