Giuseppe Granieri per "l'Espresso"
INTERNETINTERNETSe i giornali fossero una squadra di baseball", ha scritto nei giorni scorsi Eric Alterman, "sarebbero i Mets. Una squadra senza speranze per l'anno a venire". Alterman, giornalista, blogger e critico dei media, gioca con la retorica e la provocazione. Ma dopo un incipit a effetto enumera quelle che definisce le "continue deprimenti statistiche" che hanno come protagonista l'informazione su carta stampata.
È un declino che dura da molto: negli Stati Uniti, negli ultimi trent'anni, i ricavi sono stati in calo costante e anche se i valori vengono aggiornati all'inflazione, risultano dimezzati rispetto al 1984. Ancora, per dare l'idea dello slittamento nel potere, le vendite combinate di tutti i giornali americani nel 2011 non arrivano ai due terzi del fatturato di Google. È una tendenza, dice Alterman, che non è destinata a invertirsi: "Il peggio deve ancora arrivare".
Certo, guardando al presente esistono modi diversi di leggere lo stato di salute dei giornali. Ma ogni nuovo report continua a suggerire preoccupazione per il futuro. LinkedIn, il popolare social newtork del mondo professionale, ha pubblicato recentemente una serie di dati sulle industrie in crescita e su quelle in calo, misurando i posti di lavoro persi o guadagnati. Il grafico, anche qui, è allarmante: i giornali sono in assoluto l'industria che negli ultimi quattro anni ha bruciato più occupazione.
E qualche giorno dopo è stato rilasciato l'importantissimo rapporto sullo stato dell'informazione americana, uno studio molto strutturato che anno per anno descrive bene il settore. E che contiene rivelazioni interessanti sui comportamenti dei lettori e sul modo in cui gli ambienti sociali (Twitter e Facebook in particolare) iniziano a lavorare come canali di distribuzione delle notizie. Il dato che davvero descrive il problema, però, è quello sui ricavi: dal digitale i giornali mettono in cassa solo un dollaro per ogni dieci che ottengono dalla carta.
sede italiana googlelinkedinL'opposizione tra carta e bit, infatti, non è una banale questione di supporto, o di affezione a un'idea. È prima di tutto un problema industriale: l'adozione delle nuove tecnologie porta a un modello di informazione diverso: man mano che il pubblico dei giornali cambia le sue abitudini di consumo, il modello tradizionale va in crisi. Non diminuiscono i costi, ma si riducono le tre "gambe" che sostenevano i ricavi: da un lato crolla la diffusione, quindi calano le vendite e gli abbonamenti, e dall'altro si riduce la raccolta pubblicitaria.
Allo stesso tempo non c'è una compensazione da parte del digitale. Il pubblico non è abituato a pagare l'informazione on line e sul Web gli inserzionisti hanno migliaia di altre opzioni per collocare la loro pubblicità su siti più vicini al target e al tipo di attenzione cui mirano. Le grandi news corporation non sono più gli unici giocatori della partita. Nascono e crescono in fretta molte altre realtà, più agili e competitive. E la notizia stessa, che nel mondo della carta era un bene scarso, diventa persino troppo abbondante: si trova ovunque e con facilità. È difficile darle un prezzo e restare credibili.
Il vero problema, dunque, non è tanto quello di giocare con le congetture e provare a stabilire per quanti anni ancora avremo giornali e riviste di carta. Piuttosto, si tratta di cercare una risposta a un tema fondamentale per le nostre democrazie: il giornalismo professionale costa ed è centrale nelle nostre vite. Ma chi - e come - sosterrà il costo del giornalismo man mano che i ricavi della carta continueranno ad essere in declino?
Per una valutazione laica della questione è necessario sgombrare il campo da qualche superstizione. Il giornalismo diffuso, quello dei blogger o dei "corrispondenti da Twitter", funziona benissimo in alcuni casi: ad esempio nei Paesi a democrazia limitata (lo abbiamo visto lavorare bene in Iran, poi durante la primavera araba, oggi in Siria) o quando abbiamo a che fare con insider o fonti dirette.
Ma non è possibile metterlo a sistema, se non come opzione che si limita ad arricchire il nostro mondo dell'informazione. La copertura delle notizie mondiali richiede investimenti e metodo, caratteristiche che fanno parte dell'industria dei media e del mondo del giornalismo di professione.
TWITTER logo facebookQuesti costi vanno collegati a un modello di ricavi che oggi è ancora tutto da inventare. Nelle sale riunioni dei grandi gruppi si guarda soprattutto in questa prospettiva. Le soluzioni che si stanno sperimentando sono diverse. Il "New York Times" sta facendo i primi bilanci, a un anno dal lancio del suo paywall, il sistema che obbliga i lettori a pagare le notizie. I dati sono abbastanza confortanti (vicini al mezzo milione di abbonati) ma sono soprattutto dovuti alle opzioni offerte per i dispositivi mobili.
Il "Guardian", invece, ha adottato una strategia molto più aggressiva, applicando la logica del digital first, considerando prioritaria l'edizione digitale rispetto a quella cartacea. È un passo molto importante, perché la crisi della carta è collegata ad una crisi di prodotto e a un modo di pensare il giornalismo. Non a caso alcuni commentatori cominciano a definire i giornali come "l'industria delle notizie del giorno prima": il digitale ha cambiato radicalmente le abitudini dei lettori e l'intero ecosistema dell'informazione.
THE GUARDIANIl giornalismo deve quindi adeguarsi e pensare a se stesso in modo differente, più collegato alla contemporaneità. In un ambiente iperconnesso in cui ormai tutti i protagonisti "dichiarano su Twitter" invece di farsi intervistare o di chiamare il giornalista, va modernizzato il ruolo del "mediatore", di chi costruisce una comprensione del mondo per i suoi lettori.
Per questo la strategia del "Guardian" è interessante: da vero manipolo di "radicali del digitale" (come li ha definiti qualcuno), i signori della testata inglese stanno lavorando moltissimo sulla ricerca di forme di informazione moderne. Partendo, non a caso, dall'accettazione della "grammatica della Rete" che ha caratteristiche diverse da quella della carta.
Al "Guardian", così, provano a costruire un modello intorno ai propri lettori. La domanda che si pongono, per guardare al futuro, è quella corretta: "Il tuo giornale ha bisogno di te. Ma tu hai bisogno del tuo giornale?". I primi risultati sono incoraggianti: i lettori si dimostrano disponibili a costruire una "relazione speciale" con la testata offrendo, come ha scritto Charlie Beckett, "lealtà in cambio di giornalismo che porti valore aggiunto". Così la sfida è quella di trasformare il "lettore del "Guardian"", facendolo diventare "membro del "Guardian"".
Lo stesso direttore, Alan Rusbridger, ha definito le dieci regole del giornalismo partecipativo. E sono regole che descrivono - ancora una volta - un mestiere coerente con le logiche di Rete e non più con quelle della carta. Lo spirito è quello di incoraggiare la partecipazione e costruire una prospettiva nuova. Delle dieci regole, forse la più significativa è la numero due: "Il giornalismo non è più una forma inerte di comunicazione da noi a voi".
Certo, c'è ancora moltissimo da inventare e da sperimentare. Al momento la transizione al digitale avviene prevalentemente replicando sui diversi dispositivi le forme consuete cui ci ha abituato per decenni la carta. Ma si provano nuovi approcci ovunque: il "Wall Street Journal", ad esempio, sta esplorando un nuovo social network di moda (Pinterest) mettendo in vetrina citazioni significative dei propri articoli.
ordine dei giornalistiE il lavoro per costruire prodotti efficaci sui dispositivi mobili è ancora nella sua prima infanzia, ma è sempre più strategico. Tutte le ricerche e tutti i dati di mercato sembrano indicare che presto, negli Stati Uniti, ma anche da noi, gli smartphone e i tablet saranno il principale strumento di informazione per i lettori. È una previsione facile da fare: man mano che i costi diminuiscono e che l'adozione dei nuovi strumenti procede, la senescenza del vecchio approccio sarà sempre più evidente.
Anche in Italia si sta preparando il futuro e - soprattutto tra le testate più attente - c'è molto interesse per una trasformazione che è destinata a mostrarsi in fretta e che va studiata prima. Si osserva quanto sta accadendo oltreoceano e si pianifica quello che sarà il presente di domani.
Ma a monte resta irrisolto il grande problema, che è quello di capire come pagare il giornalismo. Ed è un problema che non riguarda solo i giornalisti e grandi gruppi: abbiamo bisogno, tutti, di informazione moderna e di qualità. Che è uno dei principali ingredienti della democrazia.