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Luca Fazzo per il Giornale
«Sarò un ignorantone ma non sono un assassino», aveva detto Massimo Bossetti l' 1 luglio dell' anno scorso ai giudici della Corte d' assise di Bergamo prima che si ritirassero in camera di consiglio: chiedendo, anzi «implorando» che ordinassero un nuovo esame del Dna, «quel Dna non è il mio».
Non gli credettero: dieci ore di camera di consiglio, e la sentenza che lo condannava all' ergastolo per avere ucciso Yara Gambirasio il 26 novembre 2010.
Stamattina Bossetti tornerà a sedersi davanti ad una giuria: tribunale di Brescia, corte d' appello. Parlerà anche a loro, ai due giudici e ai sei giurati che oggi decideranno la sua sorte. Se non saprà essere più convincente di un anno fa, per lui sarà la fine. Conferma dell' ergastolo, e solo l' esile speranza della Cassazione a separarlo dal carcere a vita.
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Ce la farà, Bossetti? Saprà smuovere i convincimenti che nelle quattro udienze il processo ha sedimentato nella Corte, saprà alimentare i dubbi che i suoi difensori hanno cercato di portare in aula, spingendo i giudici a muoversi con gli strumenti della ragione nel difficile terreno dell' orrore, a affrontare con il rigore della logica anche le immagini terribili del corpo di Yara, dei leggins strappati, di una mano di ragazzina stretta disperatamente intorno a uno sterpo?
Sarà quello, il rischio di una sentenza emotiva dall' esito inevitabile, il primo nemico di Bossetti. Non è un uomo che ispiri simpatia a pelle, Bossetti, e a volte gli si coglie un che di torvo nello sguardo: ma chi - anche innocente - al suo posto avrebbe ormai lo sguardo limpido? Se scavallerà questi ostacoli, se costringerà i giudici e i giurati alla fredda analisi, allora tutto può accadere. Perché per condannarlo all' ergastolo serve una certezza granitica e quasi inumana nella scienza, nella infallibilità dei laboratori, nella sacralità di quella prova del Dna che anche in questo processo il muratore e i suoi hanno chiesto di ripetere.
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«Meri indizi»: questo è tutto il resto degli elementi raccolti contro Bossetti. A dirlo non sono i suoi difensori, ma la sentenza che un anno fa lo condannò all' ergastolo. Il Dna è «assolutamente affidabile, privo di qualsiasi ambiguità e insuscettibile di lettura alternativa», scrisse allora il giudice Antonella Bertoja. Ma se il dubbio su quella affidabilità assoluta, sulle modalità di prelievo e di analisi, sulle cellule e sui mitocondri oggi fa breccia nelle menti della Corte, allora a dimostrare che Bossetti è il mostro resta poco o niente.
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Paradossalmente, un varco al dubbio potrebbe averlo aperto anche il rappresentante dell' accusa, il procuratore generale che ha chiesto la conferma della condanna all' ergastolo. A Bergamo, in primo grado, il pm Letizia Ruggeri era stata attenta a non formulare ipotesi azzardate su moventi e dinamiche sconosciute: il Dna dice che è Bossetti, punto e basta. In appello invece l' accusa si è spinta a immaginare un film del delitto: Bossetti che incontra la ragazza per caso, la invita a salire, lei accetta, poi «una frase o un gesto sbagliato ha scatenato la reazione di Yara».
Ma è proprio in questa ricostruzione che affiorano le falle logiche più vistose: il comportamento di Yara, la sproporzione tra movente e delitto, e soprattutto l' incredibile conclusione, Bossetti che non uccide Yara ma le dà un botta in testa, la taglia in superficie, e la scarica tramortita ma viva nel campo di Chignolo d' Isola. Con la speranza che muoia? Col rischio che si salvi?
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