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Malcom Pagani per il “Fatto Quotidiano”
I vizi di un tempo lontano: “Ho fumacchiato, ero una patita della vodka, ho viaggiato molto, non sempre con costrutto”. Le galere del presente: “Nella vita ho sempre camminato tanto, ma adesso, nella Roma del 2015, trovare un marciapiedi libero è un’impresa”. Le aspirazioni del futuro: “Non ho smesso di fare la regista, ho un’idea che aspetta nel cassetto da 5 anni e non dispero che qualcuno un giorno o l’altro la produca”.
Più che nei versi di Hollander cantati ne Il portiere di notte: “Se potessi desiderare qualcosa vorrei essere un po’ felice / perché se fossi completamente felice sentirei la nostalgia della tristezza” Liliana Cavani vorrebbe ritrovarsi agli inizi della corsa. Quando il traguardo era un indistinto festone all’orizzonte e partire tutti dal medesimo blocco dava più valore al risultato. La macchina da presa, i Festival, i premi, le amicizie, la solitudine: “La provai per la prima volta osservando un film, sentendomi al tempo stesso sperduta e rincuorata”.
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La sala di Carpi in cui trascorrere i pomeriggi si chiamava Fanti: “D’estate mi lasciavano lì all’ora di pranzo e venivano a riprendermi all’imbrunire. Certe pellicole le vedevo anche due o tre volte” e non si sa se nel ricordo brilli più il rimpianto o si stagli lunga l’ombra della noia. Quadri di Karl Hubbuch alle pareti, divani verdi, ciak, libri, fotografie sul set.
Fregandosene allegramente del consenso, in mezzo secolo di scorribande, Cavani ha firmato più di 10 documentari, qualche regia lirica tra Zurigo e San Pietroburgo e una ventina di film. Il primo, Francesco , con un eretico Lou Castel nelle vesti del protagonista, è del 1966. L’ultimo, con lo stesso eroe in saio sullo sfondo, del 2014.
Domani sera, con tanto di dibattito, lo proietteranno e ne discuteranno al Maxxi. Cavani, ecumenicamente, non fa professione di fede: “Anche se per la sinistra, dopo essermi occupata così tanto di francescanesimo, ero diventata un’autrice cattolica a tutto tondo e per i cattolici, avendo dipinto un ritratto fuori da ogni regola, ero in odor di apostasía. Nei decenni mi hanno affibbiato qualunque tipo di etichetta, ho imparato a disinteressarmene e a non rispondere alle classificazioni senza però sfiorare la grandezza di porgere l’altra guancia in presenza di un’offesa. Per quello bisogna essere santi e io santa, al di là di tutto, non sono mai stata”.
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Ha ricevuto molti schiaffi nella vita?
Metaforicamente, un’infinità. Ma di schiaffi veri uno soltanto. Ero a Carpi, frequentavo la prima elementare. Ero molto irrequieta, non riuscivo a star ferma e dondolavo la gamba su e giù fuori dal banco. La supplente, spazientita, se ne accorse e mi ordinò di alzarmi e andare vicino al termosifone. Eseguii. I compagni risero e lei domandò il motivo di tanta ilarità.
Rispose lei in prima persona?
Una compagna: “Maestra, Liliana ha detto che lei è un ragnone e noi siamo tanti piccoli ragni”. Una frase innocente che nella supplente provocò una reazione furibonda. In coincidenza con la campanella del fine lezione, da questa stronza, mi arrivò un ceffone mostruoso. Un suono sordo. Un rimbombo. Un’umiliazione gratuita, simile a quelle che Fellini raccontò nella classe di Amarcord . Presi la cartella, andai a casa, incontrai mia zia e cominciai a piangere a dirotto. “Cos’è successo?”. Tra le lacrime spiegai: “Mi ha picchiata”. Di fronte alla disperazione di una bambina, i miei corsero a protestare.
Diedero loro retta?
Fino a un certo punto: “È una supplente” si giustificò la preside. “Ha un brutto carattere”. Negli anni smise di insegnare. Finì a fare la segretaria.
Fu sollevata quando le seppe?
Liliana Cavani e Lillo Ruspoli
Non particolarmente. Non sono mai stata dalla parte dei genitori che vanno a litigare con le maestre e da veri imbecilli difendono i loro figli ad ogni costo trattandoli come piccoli imperatori. Non fu lo schiaffo in sé a farmi male in quell’occasione, ma il movente. Per una reazione simile avrei sognato una giustificazione più decente.
Da che famiglia proviene Liliana Cavani?
Da un contesto piccolo borghese. E le famiglie piccolo borghesi si somigliavano tutte. Fasciste durante il Fascismo. Rosse con venature più o meno tenui in seguito, quando alla bandiera nera si sostituì quella rossa. Starace in visita a Carpi in un tripudio di labari me lo ricordo ancora. Così come non mi sono dimenticata di mio nonno e di mia nonna. Si sposarono in Municipio nel 1917. Lui era un sindacalista socialista che di Carpi, prima che il Duce cambiasse l’orizzonte al Paese, sarebbe dovuto diventare sindaco.
Dei suoi genitori che memorie ha conservato?
Mi misero al mondo da giovanissimi. Avevano entrambi poco più di diciott’anni. Mio padre Ugo lasciò mia madre per un’altra donna. E da allora lo vidi poco o nulla.
Non gli perdonò l’abbandono?
Non gli ho perdonato tante cose, a iniziare dall’assoluta incapacità di fare il padre. Un problema comune a tanti uomini. In famiglia, almeno nella mia famiglia, erano quasi del tutto assenti.
Marco Muller Liliana Cavani
Suo padre, all’epoca del protettorato inglese, ridisegnò le architetture di Baghdad. Ma in Iraq con lui non andai mai. I rapporti furono sempre ondivaghi. Difficili. Rarefatti. Si era trasferito a Roma, ma piuttosto che andare a vivere con lui in un appartamento regale, preferii dividere una casa con altre due persone. Una stanza singola. Bastava. Avanzava.
Dopo i pomeriggi al Fanti di Carpi, a che età presero davvero il via quelli con il cinema?
Nella tarda adolescenza. A portarmi lontana da Carpi, più che il sogno della fuga, furono le circostanze. Il Liceo Classico nella mia città non c’era, così per frequentarlo salivo sul treno alle 6 e 20 di mattina e raggiungevo Modena. Il cinema lo incontrai per la prima volta a Bologna. Proiettavano film che a Carpi non sarebbero passati neanche per sbaglio. A Bologna, con altri due studenti universitari fondammo un Cineclub. Affittavamo i film da agenzie specializzate e non si sa come, la gente pagava l’ingresso riempiendo di fumo e discussioni la saletta. Abbuffate di Bergman e Dreyer.
Pilastri della sua formazione?
Il mio preferito resta De Sica. Ne L’oro di Napoli c’è l’Italia. I napoletani sono arguti. Di quell’arguzia che nasce dall’urgenza. Mal governati da sempre, ma con un guizzo che li salva in qualunque circostanza. Per il resto, non ero niente. Non proprio per questo motivo ho potuto plasmare la mia in assoluta libertà. Sono stata molto fortunata. Ho incontrato gente in gambissima. Persone moderne, originali, il più delle volte matte da legare.
C’erano anche al Centro Sperimentale di Cinematografia?
Liliana Cavani
Lessi il bando di concorso. Per affrontare l’ esame, a settembre, serviva la laurea. Così mi sbrigai e chiusi l’ Università in giugno in modo un po’ comico. Solo dopo mi resi conto che le regole erano stabilite alla ‘ romana’ e la laurea non serviva affatto. Ormai ero dentro. Unica donna. Quattro italiani in tutto. Molti uditori provenienti dall’ estero. Turchi, cubani, svedesi, un nero e un colombiano, Roberto Triana Arenas, del quale diventai amica fraterna. Un clima stupendo figlio di una salvifica sprovincializzazione. Trovarsi insieme era bello. Alla mensa del Centro Sperimentale, prezzi rigorosamente popolari, planava chiunque.
Gente giovane?
I vecchi non avevano tempo da perdere. I vecchi lavoravano. Mentre all’ epoca i giovani non se li filava nessuno. Non come oggi. Anche se sono platealmente negati, difficile che trovino qualcuno che gli impedisca di fare un film. Una legge stabiliva che per accedere a certi premi governativi, ogni troupe dovesse assoldare un ragazzo del Centro Sperimentale.
Liliana Cavani e Carla Fendi
Le maestranze guardavano i novizi con fastidio e non mancavano i produttori che ottenevano i soldi dello Stato facendo figurare fittiziamente gente che sul set non sarebbe mai arrivata. Qualcuno però ce la faceva. C’ era un ragazzo che aveva ottenuto non so come un ruolo da assistente di Luigi Comencini. Lo guardavamo con ammirazione, lo toccavamo con la stessa sacralità che si riserva alla reliquia.
Per riuscire a lavorare lei dovette affrontare un mitologico concorsone Rai.
Undicimila partecipanti in tutta Italia, 30 posti in tutto. Una roulette russa. Superando il concorso precedente, in Rai erano entrati Furio Colombo, Umberto Eco e Angelo Guglielmi. Provai anch’ io. Ci ritrovammo in migliaia al Palazzo dei Congressi di Roma. Tre tram per arrivare, una certa disillusione sull’ esito finale. Per miracolo, come tema d’ esame, uscì il teatro di Goethe.
ROBERTO DAGOSTINO LILIANA CAVANI
Annoiandomi mortalmente avevo letto un saggio della Bur sullo stesso argomento comprato da una bancarella poco tempo prima. Non avrei mai pensato mi servisse e invece accadde. Mi sforzai di ragionarci sopra. I compagni d’esame avevano sguardi vuoti. Non sapevano di cosa si parlasse. Fu un’ecatombe. Solo in pochissimi vennero promossi.
Il destino è strano. Con lei fu benevolo.
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Dopo qualche mese di preparazione, il nascente secondo canale culturale della Rai iniziò ad affidarmi alcuni compiti. Lavorai sulla Resistenza, sulle donne che nell’iconografia partigiana erano viste solo come staffette in bicicletta e che invece scoprii, con mia grande sorpresa, aver ricoperto chi da colonnello, chi da capitano, ruoli di grande responsabilità.
Dovetti studiare. Farmi una cultura. Mi ero laureata in Lettere Antiche e conoscevo molto di più la guerra del Peloponneso che il secondo conflitto Mondiale. Lavorai su Stalin e sul terzo Reich. Andai a Tubinga nel ’65. Le persone facevano finta di non ricordarsi di Hitler. Forse provocavano. A me sembravano soltanto degli stronzi. Quel lungo lavoro sul Nazismo, a tratti sconvolgente, a contatto con gli archivi del Congresso americano sulle atrocità delle SS, incosciamente indirizzò il mio mestiere in una precisa direzione.
Quale?
Non quella del racconto purché sia, ma quella della ricerca. Della curiosità. Del disvelamento dei nessi alla base di una tragedia.
il portiere di notte
Ragionando sul senso di colpa, il suo film più celebre, “Il portiere di notte”, affrontava anche quell’argomento.
Il portiere di notte fu un uragano. Bob Edwards, il produttore americano, un romanzesco, intelligentissimo ex ufficiale della Quinta armata che sposò un’italiana, decise di farlo uscire a Parigi: “Gli italiani sono bigotti, la butteranno subito in politica, proviamo con la Francia”.
E Francia fu.
Il film sarebbe potuto andare anche a Cannes, ma rinunciammo. Quando finalmente Il portiere di notte arrivò in Italia, inevitabile, scoppiò il casino. Mi convocò la commissione censura. Furono secchi: “Abbiamo deciso di vietare il film ai minori di 18 anni”. Io ero incredula: “Perché?”. “C’è una scena di sesso inaccettabile, in cui Charlotte Rampling fa l’amore stando sopra Dirk Bogarde”.
Liliana Cavani
Poi partì il ballo dei pretori. Il film venne ritirato e rimesso in circolazione tre volte. Ogni tanto, dal nulla, spuntava fuori un comitato di famiglie cattoliche de L’Aquila a protestare. Sembrava un favore fatto alla produzione. Pubblicità involontaria. In realtà erano spese in più, Wilson era seccatissimo.
Era il film che voleva girare?
Non lo so, nei miei film c’è sempre un doppio registro. Dal mio punto di vista il Der Oper, l’hotel viennese in cui si incontrano Bogarde, l’ex aguzzino diventato portiere di notte e Rampling, la sua vittima di un tempo, rappresentava il cuore dell’Europa. Il film non era la cronaca di niente. È tutto inventato. È un sogno ad occhi aperti. Una metafora sul senso di colpa.
Il film rivelò al mondo la perversa bellezza di Charlotte Rampling.
Aveva fatto un paio di film interessanti, come Bogarde parlava un perfetto italiano, era ideale per la parte. Arrivò sul set con il suo bambino di tre mesi. C’era uno iato profondo tra il suo ruolo e la vita oltre il set.
Qualcuno interpretò il film come la negazione di un orrore.
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Quelli in malafede soprattutto. I critici abituati ad applicare la letteralità all’arte. Un negazionista è un cretino, non si discute. Pensi che ai tempi dei documentari Rai sul Reich incontrai il problema opposto. Volevo mostrare fino in fondo gli orrori del Nazismo e la Rai frenava per non scontentare i tedeschi.
Per quale ragione?
Politica. Le ragioni alla base della censura sono sempre politiche. L’Italia era un paese di confine, la Guerra Fredda era una realtà quotidiana. Pensi a De Gasperi: non voleva fare governi con i fascisti e per questo non venne mai ricevuto da Pio XII. Solo dopo abbiamo capito perché. Sull’Olocausto c’è stata poca informazione e in questo gli ebrei hanno eccellenti argomenti da vendere.
Al cinema lei si rivelò con “Francesco d’Assisi ”. Nel cast brillava Lou Castel.
Pensi che il film, arrivato in Argentina non so come e gradito ai gesuiti della teologia della liberazione, è uno dei preferiti di Papa Francesco.
Il film, girato su commissione di un dirigente illuminato come Paolo Valmarana, ebbe una genesi avventurosa e inchiodò al piccolo schermo venti milioni di italiani.
Soprattutto perché all’epoca venne osteggiato e contestato da molti cattolici. Avevo idee poco concilianti, volevo fare un Gesù Cristo negro. Lo spirito del tempo lambiva la rivoluzione. Castel era dolcissimo e molto timido. Lo portai in visita da Guglielmi e Angelo, guardandosi le unghie, fu laconico: “Se ti va bene, va bene anche a me”. Poi però ci fece uscire dal retro: “È meglio che i dirigenti non sappiano che Francesco sarà lui”.
Francesco d’Assisi costò poco più di trenta milioni di lire.
I soldi me li diede Guglielmi coinvolgendo Leo Pescarolo bramoso di fare il produttore. Al principio avrebbe voluto farmi girare una specie di documentario su Giorgio De Lullo, gli dissi che l’idea mi divertiva poco e per fortuna deviammo l’oggetto del lavoro in corso d’opera.
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Mi ricordo che sul set, per stimolare una reazione credibile in Lou Castel, io e parte della troupe ci sforzavamo di insultarlo: “Sei uno stronzo, un imbecille”. Ci sembrava, forse ingenuamente, che la scena avrebbe riprodotto il verismo che cercavamo ad ogni costo.
Sempre a proposito di rivoluzione, rileggendo Sofocle nel quadro contemporaneo della Milano di allora, lei girò “I Cannibali” presentato alla Quinzaine di Cannes nel 1970. A molti parve un film situazionista.
E in parte, indubitabilmente, lo era. Senza permessi, con i ragazzi protestatari sdraiati in mezzo alla strada e i baristi che nelle pause vedendo capelloni e hippies, si rifiutano di servirci persino un caffè. Più volte, intervenne la Polizia. L’impermeabile del location manager che vola dietro alle divise nel tentativo di placare le acque, ancora me lo ricordo.
Secondo lo scrittore Paolo Cucchiarelli, alle riprese, tra i ragazzi, partecipò come attore anche Pietro Valpreda.
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È la prima volta che lo sento, ma non lo escludo. C’erano tante facce. Tante persone. Tante comparse. Non tutte inquadrate. In ogni caso è vero che I cannibali venne girato nel 1969, ma molti mesi prima di Piazza Fontana. Quando Valpreda non era ancora il Valpreda passato alla cronaca e alla storia.
Si è divertita sui suoi set?
Mai litigato, ero entusiasta delle troupe, della romanità delle maestranze, gente che magari ti parla in modo diretto: “A Lilià, che dobbiamo da fà stammatina?” ma si dimostra sveglia da morire. Mi ricordo di un tecnico delle luci, Domizio Ercolani. Sembrava Obelix. Teneva le lampade in mano come un equilibrista in bilico, faceva prodigi che nascevano dal puro artigianato.
LILIANA CAVANI
Erano simpatici, come Ruggero Mastroianni, il fratello di Marcello, il miglior raccontatore di barzellette che abbia mai conosciuto in vita mia. Marcello, come Ruggero, era intelligentissimo, gaudente, semplice. Non era un damerino, ma di certo gli piacevano le donne. La cosa un po’ gli ha complicato la vita.
Mai discusso neanche con gli attori?
Quasi mai. Mi è accaduto di sbagliare attore, ma non l’ ho mai confessato neanche al diretto interessato. Ci sono cose che non vanno raccontate. Segreti che è meglio custodire.
Pensa mai alla morte?
Ci penso, certo. Ma di morte a casa nostra non si parlava, la cupezza, come d’ altronde il timore e l’ ottimismo forzato, non avevano cittadinanza. La morte per me sono gli amici perduti, ma nella quotidianità prevale l’ allegria. La voglia d’ avventura. Quella non passa. Non passa mai.
LJUBA RIZZOLI MARCELLO MASTROIANNI Marcello Mastroianni Divorzio all'italiana mastroianni liliana cavani san francesco 5