Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” - Estratti
ciampi
Forse i sostenitori del premierato all’italiana ce l’hanno tanto con i cosiddetti governi “tecnici” perché sono la negazione della democrazia, forse perché ne temono il ritorno sul più bello, forse perché rappresentano la loro cattiva coscienza. Ma solo in Italia, Paese di slanci, paure e code di paglia, si può immaginare e peggio presentare una riforma costituzionale basata sulla più assoluta mancanza di memoria storica, per giunta di storia recente e recentissima.
Si perdoni il tono risoluto ai limiti dell’oracolare. Ma quando le cose accadono, e accadono una, due, tre quattro volte nell’arco di una trentina d’anni, di solito c’è una ragione.
E non basta aver vinto le elezioni o restare in cima alla classifica dei sondaggi (te li raccomando!) per dimenticare, ad esempio, come mai nella primavera del 1993 salì o meglio fu chiamato a Palazzo Chigi il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi.
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mario draghi lamberto dini considerazioni finali di ignazio visco 2023
Tutto ciò perché recava alle istituzioni quella particolarissima dote, la credibilità, che nessun altro in quel mentre possedeva più. Hai voglia, poi, a denunciare i poteri forti: la recente vicenda politica dice che in certi frangenti solo figure estranee ai partiti e sganciate dai meccanismi del consenso sono indispensabili. Dopo di che, il caso di Ciampi è esemplare, i “tecnici” si rivelano più bravi dei “politici” – e questo un pochino spiega pure perché gli uomini e le donne dei partiti residuali vogliano regolare i conti.
Nel 1995 è la volta di Dini. Poi, altro momento terribile, altro “tecnico” necessitato: il professor Mario Monti. Gli si potrà imputare, col senno di poi, ogni errore e responsabilità compresa quella di aver attizzato il grillismo.
lamberto dini foto di bacco
Ma c’è qualcuno che ricorda in quale preciso stato si trovava l’Italia nell’estate- autunno del 2011 al culmine della catastrofe del berlusconismo? Il crollo della Borsa e le spaventose intercettazioni telefoniche; i declassamenti a raffica e le liti tra il Cavaliere e Tremonti sulla legge di bilancio che non aveva “il timbro del sogno”; la lettera della Bce, gli stipendi degli statali a rischio, l’ombra del default e della troika, le risatine di Sarkò e Merkel, lo spread a 500, i risparmi che si polverizzavano.
Alla fine il Financial Times si rivolse a Berlusconi con il seguente titolo: “In the name of God and Italy, go!”, vattene! E dopo le follie orgiastiche venne Monti col loden che si portava da solo il trolley, così come dopo gli agi e le ruberie della Prima Repubblica era venuto Ciampi col suo pattino a remare verso la transizione. Perché vorrà pur dire qualcosa che ogni volta i “tecnici” finiscono per essere vissuti come un’alternativa provvisoria, una carta di riserva, l’unico appiglio sul ciglio del baratro.
mario monti
Si pensi a Draghi, deus ex machina convocato al Quirinale sotto la pressione della pandemia e delle sue conseguenze economiche, con tanto di Pnrr aperto, cui si aggiunse prima il disastro del governo gialloverde e poi la crisi di quello giallorosso che qualcuno aveva aperto, ma nessuno sapeva come chiudere.
Un bel clima, proprio. Ci si è scordati dell’appello che un accigliatissimo Sergio Mattarella pronunciò in piedi come a sottolinearne la drammaticità? E di quell’espressione, «salvezza nazionale», che accompagnò l’incarico all’ex presidente della Bce? Sì, è normale, scontato, perfino funzionale che nessuno se ne ricordi. Tanto col premier dei fratelli all’italiana tutto andrà bene, benissimo, anzi di più.
GIORGIA MELONI draghi