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    CHE FA LORENZETTO DI NOTTE? LE PULCI AI GIORNALI! - CAMILLA CONTI SU "LA VERITÀ": "UN FIUME DI SOLDI DALL’ITALIA PALESTINA". SIAMO STATI ANNESSI? - "LA STAMPA": “BANCHIERE LICENZIATO PERCHÉ TRATTA MALE I CLIENTI”. E CHI È ANDREA ORCEL? AH, NO: TRATTASI DI BANCARIO, CIOÈ DI UN IMPIEGATO IN UNA BANCA - INCIPIT DEL PEZZO DI FABRIZIO RONCONE, SUL "CORRIERE DELLA SERA" SULLA BEFFA SUBITA DA GIORGIA MELONI: "STORIA COMPLICATA DA RACCONTARE. PESSIMO TANFO". ESISTE ANCHE L’OTTIMO TANFO? O È STATO SOLO UN PESSIMO TONFO? - E LA ASPESI...


     
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    “Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” (http://www.stefanolorenzetto.it/telex.htm)

     

    il foglio, cerasa inventa un titolo per toto il foglio, cerasa inventa un titolo per toto

    A testate unificate, la stampa italiana canzona Giorgia Meloni per aver abboccato alla telefonata di due comici russi e si rifà a una celeberrima gag di Totò. Tutti i giornali tirano in ballo il Catonga, immaginario Paese africano. Supera sé stesso il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, il quale, in risposta a una lettera telegrafica dell’ex deputato Giuliano Cazzola («L’Halloween di Giorgia Meloni: dolcetto o scherzetto?»), riesce a distillare la seguente castroneria: «Un film da rivedere per l’occasione, consigliato dall’ex ministro Enzo Amendola: “Totò e l’ambasciatore di Catonga”. Sipario».

     

    MEME SULLO SCHERZO TELEFONICO A GIORGIA MELONI MEME SULLO SCHERZO TELEFONICO A GIORGIA MELONI

    Fa di più, Cerasa: pubblica in prima pagina il titolo «Meloni nel Catonga» e commissiona al suo redattore Carmelo Caruso un articolo in cui si legge: «Sembra una scena di “Totò ambasciatore di Catonga”». Non esiste alcun titolo di quel genere nella filmografia di Totò e non esiste nessun Catonga. La pellicola in questione è Totòtruffa ’62 (che M. Gal. sul Corriere della Sera cita in modo erroneo, scrivendo «Totòtruffa62») e contiene un siparietto in cui Totò, con il volto dipinto di nero, si finge «sua eccellenza ambasciatore Catongo», come dice Nino Taranto, truccato nello stesso modo e ribattezzato per l’occasione Bubu Zuzu.

     

    Impossibile equivocare sul punto, a meno che non si vada un tanto al chilo, come fanno Cerasa e Caruso. Infatti, nella medesima scena, ricorrono queste altre espressioni: «Tuo parente emigrato molto tempo fa in Catongo»; «Devi partire subito per Catongo»; «Ma nel Catongo ce n’è uno solo». Curiosità: in Angola esistono due toponimi identici, il Catongo, monte di 794 metri nella provincia di Namibe, e il Catongo, corso d’acqua nella provincia di Uíge.

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    Carlo Bonini sulla Repubblica impartisce una sarcastica lezione al premier Giorgia Meloni su come evitare burle a distanza e su come si debba parlare al telefono con capi di Stato africani veri o farlocchi. La rimprovera d’ignoranza perché mostra di non sapere chi fosse Stepan Bandera (1909-1959), controversa figura politica ucraina di estrema destra, e la critica duramente perché «se ne frega di una regola fondamentale del protocollo diplomatico.

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    In base al quale, al di fuori di conversazioni informali con capi di stato e di governo con cui si è stabilito un rapporto personale di conoscenza diretta, è necessario che chi rappresenta un Paese si tenga nelle conversazioni telefoniche e non in un binario lessicale e di contenuti prestabiliti».

     

    Una regola fondamentale del protocollo giornalistico imporrebbe persino a Bonini di rispettare la lingua italiana e il lettore. Come insegnò Elio Vittorini sin dal titolo del suo romanzo Uomini e no, imprescindibile forse quanto Bandera, il vicedirettore della Repubblica avrebbe dovuto limare una n per essere grammaticalmente a posto, e – alla malora la tirchieria – sprecare due virgole per non costringere chi legge a una gimcana interpretativa.

     

    Il risultato finale poteva essere questo: «È necessario che chi rappresenta un Paese si tenga, nelle conversazioni telefoniche e no, in un binario lessicale e di contenuti prestabiliti». Come suggerisce il Vangelo: Bonini cura te stesso.

     

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    corriere della sera, il pessimo tanfo di roncone corriere della sera, il pessimo tanfo di roncone

    Incipit del pezzo che Fabrizio Roncone dedica sul Corriere della Sera alla beffa subita da Giorgia Meloni: «Storia complicata da raccontare. Pessimo tanfo». Esiste anche l’ottimo tanfo? O è stato solo un pessimo tonfo? Più avanti, anche Roncone va a orecchio: «Obbligata citazione di “Totòtruffa ’62”, in cui Totò si finge ambasciatore del Catonga». Di obbligate ci sono solo le verifiche sulle citazioni.

     

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    Risposta di Natalia Aspesi a una lettrice del Venerdì di Repubblica: «Mi vergogno molto non solo di non sapere se non vagamente cosa sia la celiachia». Di che altro si vergogna?

     

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    Incipit del servizio di Camilla Conti sulla prima pagina della Verità: «Un fiume di soldi dall’Italia Palestina». Siamo stati annessi?

     

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    la stampa, il bancario diventa banchiere la stampa, il bancario diventa banchiere

    Titolo dal sito della Stampa: «Banchiere licenziato perché tratta male i clienti, il tribunale lo reintegra: “Ambiente stressante, provvedimento spropositato”». E chi è il licenziato? Carlo Messina? Andrea Orcel? Ah, no: trattasi di bancario, impiegato in una banca, figura assai diversa dal banchiere, proprietario, grande azionista o amministratore di una banca. Solo che a Torino non lo sanno.

     

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    Vittorio Sgarbi firma sul Giornale un brillante commento a proposito del caso Giambruno ma scivola nel finale, concludendo che «sarà irrappresentabile il Don Giovanni di Mozart, soprattutto l’aria “Madamina il catalogo è questo”, in cui si elencano gli amori del padrone, dalle 640 in Italia alle 1300 in Spagna, tra contadine e baronesse, bionde e brune, grassotte e piccine, “purché porti la gonnella”». Sorvoliamo sulla virgola che manca dopo «Madamina» e anche sul «purché porti la gonnella», singolare, che non si accorda con l’elenco precedente («contadine e baronesse, bionde e brune, grassotte e piccine»), ma «in Ispagna son già mille e tre», cioè 1.003, non 1.300, stando al libretto di Lorenzo Da Ponte.

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    Secondo il Corriere della Sera, l’israeliano Yair Lapid, 59 anni, leader del partito laico e centrista Yesh Atid, che ha fondato nel 2012, «è uno dei pochi premier del Paese a non aver avuto una carriera militare (ha svolto solo la leva obbligatoria)». Ci pare il contrario. Dei 14 premier che si sono succeduti (alcuni due o tre volte) alla guida dei 20 governi che Israele ha cambiato dal 1948 a oggi, solo tre – Ytzhak Rabin (capo di stato maggiore durante la guerra dei Sei Giorni), Ehud Barak (il generale più decorato) e Ariel Sharon (comandante di unità corazzate nella guerra dei Sei giorni e in quella del Kippur) – avevano alle spalle una carriera nell’esercito. Tutti gli altri no, quindi, incluso Lapid, il 79 per cento. Non proprio pochi.

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