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Nicola Mirenzi per www.huffingtonpost.it
Il successo l’ha ottenuto con “La mia vita disegnata male”, un fumetto che si muoveva tutto intorno all’io, l’io che raccontava, l’io che si metteva a nudo, l’io che si drogava, l’io che subiva violenza, l’io che aveva problemi d’erezione. Io, io, io, io, io. Il pronome personale che oggi Gipi detesta di più.
“Da qualche anno”, dice, “vivo l’uso che ho fatto dell’autobiografia come un difetto, non solo come uno stile di racconto. Non mi pento delle forme che ho dato ai libri, in termini di parole, racconto, disegni. Mi riferisco alle motivazioni segrete che stanno alla base di quel che ho fatto. Alcune le ho scoperte, e non mi hanno fatto piacere, né mi piacciono. Sono disposto a riconoscermi una sola attenuante: allora i social network non avevano ancora conquistato il mondo e le persone non raccontavano se stessi ventiquattro ore su ventiquattro”.
Mi dice Gipi che, dopo aver attraversato il cancello di casa sua, che è nella campagna che si apre appena fuori Roma, verrà a prendermi “un vecchio signore con un camice da lavoro blu e pantaloni mimetici”.
Lo vedo arrivare in lontananza, dopo aver percorso una strada sterrata, e quando è ormai a pochi passi mi accorgo che il “vecchio signore” è in realtà lui, uno dei fumettisti più apprezzati d’Italia, l’unico che è stato candidato due volte al Premio Strega, sicuramente il meno riposante. “Ho il terrore di ripetermi. Dopo La mia vita disegnata male avrei potuto farne altri dieci di libri così. La vita che ho fatto da giovane me lo permetterebbe. Ma guardami ora. Vedi dove sto? Vivo in questa bella casa. Ecco la vista sui Castelli Romani che c’è. Ho il giardino recintato, due cani, ho come vicino di casa il nuovo ministro della pubblica amministrazione. Sono diventato un borghese, integralmente. Come diavolo faccio a raccontare di quando vivevo per strada? Non c’è più alcun rapporto tra il me stesso di oggi e il me stesso di allora. Capisci? Quando ho lavorato con l’autobiografia ero uscito da cinque minuti dal mondo dei morti di fame di provincia. Ero vivo per miracolo. Ho rischiato di morire per stupidità una decina di volte. Tante persone con cui ho fatto la strada non ci sono più. C’era stato un disastro tra i miei amici. Pensavo che meritasse di essere raccontato. Oggi non vivo alcun disastro. Tranne quello interiore, di cui non voglio parlare, che è la vecchiaia”.
Mi accorgo solo ora di non avergli chiesto come ci si possa sentire vecchi all’età che ha lui, cinquantasette anni. Sono stato distratto dal fatto che mi ha portato nel posto dove lavora, al tavolo dove sta scrivendo e disegnando una storia western che non sa ancora se diventerà un libro, e sono incantato nel vedere la tavola che ha disegnato oggi che si sta ancora asciugando: “Non so niente del West, non sono mai stato nemmeno in America. L’ho scelto come ambientazione anche perché così diminuisco il rischio di ritrovarmi a dire la mia sul mondo moderno”.
La legge ad alta voce e sembra che la stia solfeggiando. “Il ritmo è l’elemento più bello da gestire in una storia a fumetti, quello che dà più carattere. Ho sempre un tempo musicale in testa nelle storie. Ricerco la cadenza, gli accenti, le pause, come credo farebbe un rapper”.
Gipi ha suonato le tastiere in un gruppo punk (“non è che servissero a molto”), ha cantato in uno punk-hardcore, ha suonato il basso in una band reggae e i sintetizzatori in un altra formazione della quale dice che facevano musica “stranissima” e che prendevano molti psicofarmaci. La musica e il fumetto sono vicinissimi anche qui nello studio dove lavora. Ha il vinile di “Q: Are we not men?” dei Devo (“un disco che mi ha cambiato la vita”) e poi una Fender Telecaster impolverata, due chitarre acustiche, un basso anch’esso acustico, una tastiera, una pedaliera multieffetti, un sintetizzatore Moog Sub Phatty. “Amo disperatamente la musica. Purtroppo non sono ricambiato. Altrimenti avremmo fatto cose incredibili insieme”.
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L’ultimo libro che ha pubblicato l’ha solo scritto. I disegni sono di Luigi Critone. Si chiama “Aldobrando” (Coconino Press).
Perché non sei più tu il protagonista del libro?
Non volevo tornare a raccontarmi nelle storie. Ero riuscito a togliermi di mezzo con “La terra dei figli” e ne ero proprio contento. Ma poi è morta mia madre e il lutto mi ha spinto a parlare di nuovo in prima persona in “Momenti straordinari con applausi finti”. Non avrei voluto farlo, ma stavo troppo male e speravo che raccontare, come era accaduto in passato, poteva farmi stare meglio. Però, davvero, avrei preferito non farlo. Non mettere in scena un personaggio che, di nuovo, mi rappresentava.
Ma perché?
Diciamo che se chiedi alle persone di pagare per quello che racconti gli devi dare qualcosa che valga il prezzo di copertina. Il reporter di guerra non lo paghi per la bella scrittura o la bella foto. Lo paghi perché va in posti in cui tu non andresti. In piccolo, con l’autobiografia, io facevo quello. Andare dentro di me, magari nei posti peggiori, e raccontare quello che vedevo era diventato il mio mestiere. Ma in quegli anni i social network non avevano ancora conquistato il mondo mentre adesso questa attività è diffusissima, e non vedo perché qualcuno dovrebbe pagarmi per fare quello che fa già da sé: guardare se stesso e raccontarsi, mettersi in posa, nel peggiore dei casi.
Be’, non mi pare che tutti possano fare quello che fai tu, né che tu ti sia messo in posa.
E invece sì, anche la super modestia, il dire “ehi, guardate cosa è successo a questo coglione”, il rappresentarsi come un idiota era una posa, una forma di narcisismo, anche se inconsapevole. Ero sincero quando lavoravo in quel modo. Ero convinto di essere autentico. Lo facevo proprio per questo: per una ricerca di autenticità. Ma con gli anni ho perduto questa fascinazione per “l’autenticità”. Nelle storie mi sono messo nella posizione del debole, dello scemo, della vittima pure, e solo dopo anni ho capito che era anche quello un modo per chiedere amore agli sconosciuti. Come fanno tutti, ogni giorno. E di chiedere amore agli sconosciuti ci si dovrebbe un pochino vergognare. Io, quantomeno, oggi me ne vergogno.
È comodo essere vittime?
Quando sei vittima di qualcosa di serio non è comodo affatto, te lo porti dietro tutta la vita. Mia sorella è stata violentata quando ero piccolo e io, che stavo con lei nella stessa stanza, indirettamente, ho subito roba molto brutta. Ma non ne ho mai tratto motivo di fierezza. Forse, se sei vittima di offese molto superficiali può capitare di utilizzare queste offese per darsi un’identità, un senso, per fare squadra e trovare un motivo di lotta. È una cosa che vedo succedere tra molti ragazzi giovani. Come se le asperità dell’esistenza, invece di essere affrontate e risolte, potessero essere piegate in una ennesima forma di narcisismo, in una affermazione di sé. Però neppure questa condizione mi sembra comoda, più “disperata” se proprio dovessi dargli un aggettivo.
Ti senti un sopravvissuto?
No. Però da ragazzo non pensavo che sarei vissuto così a lungo. Ero sicuro che sarei morto prima dei trent’anni. Oggi sto molto meglio di come stavo da giovane. A tratti sono quasi in pace. È molto strano. Da ragazzo ricordo che immaginavo il capodanno del 2000 e rabbrividivo all’idea che lo avrei vissuto da vecchio. Ora da quel capodanno sono passati altri 21 anni. Ero davvero convinto che levarsi di mezzo finché giovani fosse una cosa onorevole. Occasioni per riuscirci ne ho avute. Alcune molto serie. Altre buffe, come questa. Una sera, a Lucca, ero talmente alterato da un mix di sostanze chimiche che credevo di volteggiare sopra la scalinata di una chiesa con i miei perfetti salti mortali. In realtà saltavo quattro scalini di marmo e atterravo di nuca o di faccia. E poi risalivo gli scalini strisciando come un verme e ripetevo l’acrobazia. C’erano persone intorno che applaudivano. Al tempo non c’era il web per guardare persone che si spaccano la testa, quello show era un’eccezione. Ero veramente molto stupido. In termini darwiniani proprio. Il problema era che ritenevo inaccettabile divenire, un giorno, un uomo di mezza età. Invece eccomi qui. L’esistenza è una cosa buffa perché è difficilissima da abbandonare, anche nei momenti in cui, magari, ti fa sinceramente schifo.
Ti fa ancora schifo?
Il giorno in cui mi sono sposato, sei anni fa, ero sulle Dolomiti. Mi alzai all’alba e uscii a camminare. Guardavo le montagne innevate e per la prima volta nella mia vita mi sono sentito di essere esattamente dove dovevo essere, quando ci dovevo essere, a fare la cosa che dovevo fare. E tutti i casini fatti, visti da quel punto finale, sembravano quasi avere un senso, erano serviti a portarmi lì. Da quella sensazione è nata anche l’idea di “Aldobrando”, la storia più luminosa che ho scritto finora.
Che però è anche l’unica che non hai disegnato.
Luigi Critone è un disegnatore eccezionale e perfetto per quella storia. Era giusto che lasciassi le matite a lui. Però non è stato facile. A me piacciono parole e disegni. Le parole ti parlano alla testa, mentre il disegno ti prende la pancia. Mi capita spesso di avere pronta una sceneggiatura e di distruggere con il disegno quello che ho scritto a tavolino. Succedono sempre delle cose che sfuggono al mio controllo quando disegno, e questo fenomeno è quello che amo di più del mio mestiere.
Puoi descriverlo?
Provo a dirtelo così. Quando ero più giovane dicevo spesso, come al solito facendo un po’ il furbo, che la mia massima ambizione era “arrivare a disegnare come John Coltrane”. Però Coltrane suonava il sassofono. Era un jazzista. Non faceva fumetti. Quello che intendevo è che speravo un giorno di avere quelle possibilità di improvvisazione. Voglio dire: non credo che Coltrane pensasse alle note che suonava quando improvvisava. Coltrane suonava e basta. Tutto quello che era nella sua disponibilità, semmai, veniva da discipline applicate prima che suonasse. Cioè, tu studi come un matto, ti eserciti come un ossesso, per arrivare al punto in cui, grazie a quello che hai acquisito, riesci a staccarti da te stesso e andare altrove. Nel caso di Coltrane, oltre il mondo terreno. Nel caso mio, più umilmente, per assistere, a volte, al manifestarsi di un mistero: quello di vedere accadere qualcosa che non avevi previsto, che non sapevi, che non è il tuo io a determinare e che anzi è potuto esistere proprio perché il tuo io è svanito per un po’. In altre parole, sono soddisfatto di qualcosa che ho fatto solo quando la guardo e mi sembra che non sia opera mia.
Allora perché la firmi tu, se non è opera del tuo “io”?
Perché io posso perdere il controllo, ma comunque sempre dentro i confini di quello che conosco, delle tecniche che ho imparato, delle parole che sono nel mio vocabolario, dei limiti della muscolatura della mia mano destra. C’è il mio nome perché sono io che ho dedicato l’esistenza a questa follia, mia è la gobba spuntata stando al tavolo da disegno. Mie le diottrie lasciate sui fogli.
Coltrane era un musicista spirituale. Lo sei anche tu?
In un solo momento della mia vita ho ipotizzato l’esistenza di qualcosa di superiore: quando ho disegnato un albero dal vero per la prima volta e la quantità di bellezza che ho visto era così sconvolgente che ho pensato: “Non può essere un caso”. È una sensazione che è durata solo un pomeriggio, perché sono cresciuto con i cani e so che i cani hanno le pulci, mentre le pulci non sanno che esiste un cane, come i parassiti delle pulci, a loro volta, non sanno che esistono né le pulci, né il cane. Eppure credo che sia le pulci, sia i parassiti delle pulci, guardando i peli del cane, in certi momenti, possono intravedere in essi una grazia superiore, fatta apposta per loro. Mentre noi sappiamo che si tratta solo dei peli di un cane. Qualsiasi spiegazione di Dio prevede che in un universo in continua espansione egli abbia una particolare attenzione – guarda caso – per quello che faccio io e che, guarda un po’, ha stabilito anche un sacco di regole che sembrano proprio scritte da uomini. Ecco: per i miei canoni, questo Dio che sta a sorvegliare le mie attività, sessuali e non, è un’idea un po’ troppo impiegatizia.
Credi davvero che sia questo il Dio di Coltrane?
Non ho idea di quale fosse l’idea di Dio di Coltrane. Se devo essere così presuntuoso da ipotizzare come la spiritualità possa prendere un posto tanto importante nella vita di un artista, allora ti dico che forse di fronte a tutta la grazia che c’è nell’esistenza si può essere travolti da un tale sentimento di riconoscenza e insieme di terrore da essere spinti a dare a questa vertigine il nome di Dio. Magari a lui è andata così: ma come posso saperlo?
Perché hai cancellato il tuo account Twitter?
Perché mi faceva male.
Cosa ti faceva male?
Mi sono accorto di due cose stando sui social: la prima è che qualsiasi puttanata scrivessi c’era sempre qualcuno che comunque, molto gentilmente, mi diceva che ero un ‘genio’.
E qual è il problema?
Che quando qualcuno ti dice che sei un genio, anche se sai che non è vero, una parte di te ci crede. E quando a uno che fa il mio mestiere gli si insinua il dubbio di essere un genio è finito.
E la seconda cosa che hai capito?
È legata alla prima: i like, i retweet, hanno un effetto immediato, ti rafforzano nelle tue convinzioni, ti scaldano il cuore, ti fanno sentire parte di una comunità, di una tribù. Io avevo centomila follower e sapevo abbastanza bene come avrebbero reagito ogni volta che scrivevo una cosa. Sapevo che se li avessi scatenati contro qualcuno, segnalando una qualche bestialità, probabilmente mi avrebbero seguito. Non tutti, ma almeno un migliaio sì. Lo sapevo; ma lo facevo lo stesso. Perché non c’è niente da fare: per quanto uno odi il potere, come lo odio io, se lo hai, lo eserciti.
Ma perché ne sei uscito?
Più volte i fascisti mi hanno minacciato di corcarmi di botte, erano cose che mi aspettavo facessero, di cui non mi sono mai troppo curato. I dispiaceri veri li ho avuti dall’altra parte, da quelli di sinistra. Per qualche motivo a me ignoto riuscivo a soffrire per quello che dicevano, forse perché dentro mi dicevo: “Ma non vedi che sono dalla tua parte?”. E ogni volta che ho ingaggiato una discussione con loro più cercavo di spiegarmi più mi azzannavano, con le solite accuse, il “maschio bianco”, il “privilegiato etero cisgender eccetera”. Molte persone diverse usavano le stesse parole. Era triste avere a che fare con persone che risultavano sovrapponibili e sostituibili le une con le altre, che avevano rinunciato alla loro individualità, che sarebbe stata sicuramente interessante, per prestare la loro voce all’ideologia in voga al momento. Comunque sia, rispondevo a tutti, discutevo con tutti. Finché un giorno mi ritrovo con questo cazzo di telefono in mano a dire: “Sta succedendo di nuovo”.
Stava succedendo cosa?
Stavo riattivando dentro di me il meccanismo che si era innescato la notte in cui è stata violentata mia sorella. Quando, anche se ero piccolo, cercavo di convincere quell’uomo a lasciarci stare e non capivo che lui, invece, era venuto lì apposta per farci del male. In pratica, si stava ripetendo in me lo stesso processo ma traslato su un social network. Quelle non erano persone con le quali potevo parlare, era gente che voleva solo sfogare la propria aggressività, e io ci cascavo tutte le volte, come il coglione che sono. Quando me ne sono accorto, ho chiuso gli account.
Non potevi semplicemente spegnere il telefono?
Se fosse così facile i proprietari delle piattaforme non sarebbero multimiliardari. I social network sono ingegnerizzati per agevolare il conflitto. Il conflitto genera “engagement” come lo chiamano loro. Il tuo tempo, in parole povere. Quel tempo viene poi convertito in tariffe per gli inserzionisti. I social sono costruiti in modo che, se non hai un carattere forte, possono renderti una persona peggiore. E più tempo ci stai, e più diventi peggiore. E più diventi peggiore, e più fai fatturare soldi. Sono un’impresa che funziona alla perfezione, fondata sostanzialmente su una malattia.
Qual è la malattia?
L’esigenza di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento, di processare, giudicare, mettere all’indice qualcuno, ogni giorno della settimana.
Sei ammalato anche tu?
Lo sono sicuramente stato.
Ora sei guarito?
Probabilmente no. Ma, al momento, forse, ho trovato il modo di starne alla larga.
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