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    CHE SGARBATI: DANNO IL PREMIO NOBEL A CHI HA ''ALLEVIATO LA POVERTÀ'' E A DI MAIO CHE L'HA ABOLITA MANCO UNA TARGA DI OTTONE - CHI SONO E COSA HANNO FATTO MICHAEL KREMER E LA COPPIA COMPOSTA DALL'INDIANO ABHIJIT BANERJEE E LA FRANCESE ESTHER DUFLO, CON FIGLIO AMERICANO. 40-50ENNI CHE HANNO LAVORATO SUL CAMPO PER CAPIRE I COMPORTAMENTI DEI POVERI


     
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    1. IL NOBEL DELL'ECONOMIA CONTRO LA POVERTÀ

    Federico Rampini per ''la Repubblica''

     

    I vincitori del premio Nobel per l'economia quest'anno sono tre. Una coppia, marito e moglie: l'indiano Abhijit Banerjee e la francese Esther Duflo, entrambi docenti al Massachusetts Institute of Technology. Il terzo è l'americano Michael Kremer, che insegna ad Harvard. Tutti e tre sono studiosi dello sviluppo. Secondo le motivazioni del premio, si sono distinti per aver "introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale. In due decenni, il loro nuovo approccio sperimentale ha trasformato l'economia dello sviluppo, che ora è un fiorente campo di ricerca".

     

     

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    Quello che hanno in comune è l'approccio "sperimentale", appunto: cioè pragmatico, empirico, ai problemi del sottosviluppo e delle diseguaglianze. Niente proclami ideologici, bensì la ricerca delle soluzioni che funzionano, sperimentandole sul campo per sottoporle alla prova dell'efficacia. Uscire dalle stanze dell'accademia, andare tra la gente a vedere cosa funziona e cosa no. Per fare un esempio, un esperimento di cui si occupò la Duflo all'inizio della sua carriera (quando era appena 34enne), consisteva nel distribuire un medicinale contro i vermi intestinali in un campione di scuole del Kenya: con una spesa minima l'assiduità degli scolari in classe aumentò del 25%.

     

    La coppia Banerjee-Duflo ha appena pubblicato un libro, "Good Economics for Hard Times" (Public Affairs, New York 2019), cioè "una buona economia per tempi duri", che uscirà in italiano presso Laterza. È una lettura sorprendente, non è il saggio di economia che ti aspetteresti da due accademici titolati. Ci rivela che Banerjee e Duflo hanno molto da dirci su di noi, oltre che sulle ricette giuste per sollevare l'Africa dalla miseria. Sono anche due fustigatori spietati della propria professione.

     

    Il libro comincia con una barzelletta feroce sugli economisti, e non a caso: il punto di partenza è il crollo della loro credibilità, solo il 25% dei cittadini ha qualche fiducia negli esperti di economia. Peggio di così nella stima popolare ci sono solo i politici. Le ragioni sono tante e i due neo-premiati dal Nobel non ne risparmiano nessuna. Tanto per cominciare c'è un dilagante conflitto d'interessi: "Quegli economisti che vanno in tv e scrivono sui giornali sono spesso portavoce di interessi aziendali, prescindono dall'evidenza empirica, hanno un pregiudizio favorevole ai mercati ad ogni costo".

     

    In un piccolo test significativo si scopre che la maggioranza dei cittadini pensa che i chief executive siano troppo pagati, mentre gli economisti no. A loro i superstipendi dei top manager vanno bene. Il legame con i fondi per la ricerca economica elargiti dalle multinazionali potrebbe essere una spiegazione di questo accecamento ideologico?

     

    Ma dopo aver denunciato gli economisti legati al mondo del business, i due Nobel se la prendono anche con i loro colleghi che lavorano per istituzioni pubbliche, teoricamente "asettiche" e protette da ogni interferenza d'interessi privati. Ci ricordano, per esempio, che i super-esperti del Fondo monetario internazionale hanno sistematicamente sbagliato le loro previsioni sull'economia globale. Un altro tratto saliente del libro di Banerjee-Dufilo è l'importanza assegnata alla "dignità umana", spesso un bene più prezioso dello stesso reddito.

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    Questo ci porta all'altro grande tema, dove i due Nobel ci parlano di noi. È la decadenza della democrazia, e il ruolo delle scienze sociali per rimediarvi. I due autori osservano che in America il 61% dei democratici considerano i repubblicani indistintamente razzisti, sessisti e bigotti oscurantisti. La sinistra ha una visione "millenarista" - cioè apocalittica - dell'ascesa dei populismi.

     

    I repubblicani contraccambiano con altrettanti pregiudizi. Il ruolo delle scienze sociali, economia in testa, secondo Banerjee e Duflo deve essere quello di ricostruire le basi concrete e pragmatiche di un dibattito pubblico, civile e rispettoso. Non si ricostruisce una democrazia sana se ci si affronta con astratti proclami di principio, del tipo "sono per gli immigrati perché sono generoso e umanitario", oppure "sono contro perché minacciano l'identità della mia nazione".

     

    L'approccio sperimentale, giustamente premiato dal Nobel, richiede allo studioso serio di consumare la suola delle scarpe: andare sul terreno, studiare caso per caso, distinguere, entrare nel vivo delle cose che interessano o preoccupano o spaventano i cittadini.

     

     

    2. CHI È ESTHER DUFLO: IL PROFILO DI ''D- REPUBBLICA''

     

    In occasione del premio Nobel per l'economia a Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer, ripubblichiamo la cover story dedicata da D a Esther Duflo il 25 febbraio 2017.

     

    Un giorno, una donna pradhan (in hindi "persona politicamente importante"), visitò un poverissimo villaggio dell'India e fece avere aiuti agli agricoltori in difficoltà, che l'anno dopo ottennero un buon raccolto. Da allora gli uomini non solo hanno abbandonato i pregiudizi sulle donne in politica, ma hanno iniziato a pensare che anche le loro figlie avrebbero potuto diventare qualcuno.

     

    "Avere un mito può accendere i desideri di una bimba e influenzare le aspirazioni sue e dei genitori. Per cambiare vita basta un pizzico di speranza e, di tanto in tanto, la rassicurazione che la mèta non è poi così lontana". Basta iniziare a parlare con Esther Duflo per capire quanto potente sia il suo pensiero. A sei anni legge un libro su Madre Teresa in mezzo alle sofferenze di Calcutta e comincia a chiedersi come aiutare quella gente. Si iscrive alla facoltà di Storia all'Ecole Normale Supérieure di Parigi e a ventun'anni è a Mosca per una tesi sull'uso della propaganda, dove scopre la potenza della Banca di Russia, conosce Jeffrey Sachs, economista di Harvard influente alla Casa Bianca, e vede "la forza che ha l'economia di cambiare il mondo".

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    Oggi ha 44 anni (nel 2017, ndr) ed è tra i più influenti economisti al mondo. Insegna Riduzione della Povertà e Sviluppo Economico al Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove nel 2003, con Abhijit Banerjee e Sendhil Mullainathan, ha fondato l'Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab (JPal), laboratorio di ricerca sul campo che studia perché i poveri restano poveri. Bill Gates e Barack Obama sono stati influenzati dal suo pensiero.

     

    "Se abbandoniamo quel modo di pensare pigro e stereotipato che tende a ricondurre tutti i problemi allo stesso insieme di principi generici, se diamo ascolto ai poveri, sforzandoci di comprendere la logica delle loro scelte, riusciremo a capire perché vivono nel modo in cui sono abituati.  Armati  di  questa  paziente  capacità  di  comprensione, potremo individuare le trappole della povertà e quali strumenti dare ai poveri per aiutarli a uscirne".

     

    Esther è l'analista dei dettagli, perché ha capito che i finanziamenti a casaccio nei paesi in via di sviluppo non risolvono nulla. Servono intelligenza e indagini "randomizzate" sul campo per connettere cause ed effetti di fenomeni e comportamenti. C'è un esempio che Esther usa per far comprendere il concetto in modo concreto: ha scoperto che in Kenya le donne usano le zanzariere imbevute di insetticida, fornite gratuitamente dalle ong, come veli da sposa invece che per proteggere i lettini dei bimbi dalle zanzare che portano la malaria.

     

    Basta però che quelle tende vengano pagate anche solo una cifra simbolica perché la pratica finisca e i teli vengano usati in modo corretto: "Non è che i poveri non tengano alla loro salute. Ci tengono, eccome: si indebitano per curarsi. La questione non è "quanto" spendono per la salute, ma "come" spendono. Le ricerche hanno rivelato, per esempio, che non investono in prevenzione (zanzariere o vaccini) perché non hanno la certezza che funzionerà". Un altro risultato delle sue ricerche randomizzate in India è l'aver scoperto che i bambini poveri lasciano la scuola perché genitori e insegnanti  influenzati dalla cultura delle caste li inducono a credere di non essere abbastanza intelligenti, o almeno non tanto quanto i bambini ricchi. Sono passati 18 anni da quando Duflo ha incontrato il professor Abhijit Banerjee, poi diventato suo marito, e posto con lui le basi del JPal.

    michael kremer michael kremer

     

    Nel frattempo è cambiato il mondo. Il presidente è Donald Trump e la nuova parola d'ordine è protezionismo, simboleggiata dal muro di frontiera col Messico. Trump è l'emblema di una controcultura che nasce dalla rabbia e dall'opposizione, che dà fiato al sovranismo della destra europea, alle tentazioni isolazionistiche della Brexit e all'ambiguità del Movimento 5 Stelle: tutti contro tutti. Vince chi si esprime con un populismo che cerca e trova soluzioni slogan, immediate, oneshot, cui quelli come Duflo oppongono la "paziente capacità di comprensione: internet e i cellulari hanno permesso ai poveri di avere una fonte di informazione e di comunicazione.

     

    Ma lo stesso mezzo, tradotto su Facebook e sui social, è la nostra rovina. Le falsità che circolano in rete, l'immediatezza di un'informazione di superficie, ci hanno portato il cataclisma Trump. Non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi, ma di sicuro niente di buono. Io ho rassegnato le dimissioni dal Global Development Council della Casa Bianca (dov'ero stata invitata dall'ex presidente Obama). È andato tutto in fumo, e ora non vedo come potrei servire l'amministrazione Trump".

     

    Duflo si concede poco ai giornalisti, non ama parlare di sé, è impegnatissima, spesso in viaggio. È appena tornata dall'India, paese che considera suo, perché l'ha studiato a lungo sul campo e perché è la patria del marito e collega Abhijit Banerjee autore con lei di L'Economia dei Poveri (Feltrinelli). È stato lui che, oltre che darle due figli, Noémie di 5 anni e Milan di 3, l'ha guidata nella comprensione della complessità dell'India. Quando la intervistiamo ci racconta che sta preparando il ritorno in Europa, previsto per quest'estate. "Mi prendo un anno sabbatico. Torno a casa, all'Università Normale di Parigi, dove ho studiato, ma stavolta salgo in cattedra".

     

    Nonostante 14 anni negli States, casa è ancora Parigi, è l'affetto di Violaine, sua madre, pediatra, che le ha trasmesso l'amore per il prossimo. E parigino è ancora l'accento, quando parla inglese. "Tante ragioni mi riportano indietro. La mia famiglia, la possibilità per i miei figli di stare con i nonni. Non so se lascerò gli Usa per sempre, con mio marito non ne abbiamo ancora parlato, stiamo aspettando di capire cosa succederà ora che Trump è al governo. È comunque difficile trovare un'altra America, qui c'è ancora molto da amare. Certo, non abbiamo idea di cosa succederà, non abbiamo ancora capito fino a che punto il neopresidente metterà in atto il suo programma, e fa un po' paura vivere negli Stati Uniti in questo momento, ma non voglio perdere l'ottimismo, in quattro anni le cose potrebbero anche migliorare. Il futuro... è aperto ai cambiamenti".

     

    L'Europa l'attrae e, perché no, potrebbe in futuro decidere di fare tappa a Milano, "d'altra parte Milan è il nome che ho scelto per mio figlio!". L'India no, il paese non è ancora pronto. "Ha fatto molto per agganciare la crescita industriale, ma resta ancora tanta strada da fare per istruzione, sanità, ambiente. Però è promettente che abbia firmato l'accordo di Parigi per ridurre le emissioni. Ha permesso di attivare norme di contrasto all'inquinamento, perché il cielo di Calcutta è talmente saturo di fumi nocivi che gli indiani stanno morendo. Come paesi ricchi, abbiamo la responsabilità di consentire loro di raggiungere la prosperità economica, ma in un modo non così dannoso". Il che non significa necessariamente finanziamenti, quanto piuttosto articolati progetti di innovazione e sviluppo: "L'Occidente ha contaminato il mondo così tanto, che ora non può negare lo stesso diritto alle altre nazioni".

     

    Duflo vede gli attuali equilibri geopolitici minati da austerità, depressione, panico e paura: "Stiamo combattendo la coda della crisi del 2008 e quella dei rifugiati siriani, l'Isis, il terrorismo. In una situazione così difficile non c'è fiducia in quello che l'élite propone e dice. I media, spesso accusati di far parte dell'aristocrazia del potere, hanno la grande responsabilità di continuare a raccontare la verità. E gli economisti devono imparare a usare un linguaggio semplice, perché è per la loro incapacità di comunicare che la gente ha perso fiducia in loro. Devono calarsi nella realtà, analizzare i dettagli, risolvere problemi concreti. E non ultimi, i politici devono essere trasparenti e assumersi le proprie responsabilità".

     

    Per esempio di fronte al dirompente fenomeno migratorio? "Le migrazioni sono un fenomeno consolidato da ormai un decennio, non essere riusciti ad affrontarle non è un buon motivo per smettere di provarci. E poi non c'è alcuna evidenza che l'aumento dei migranti riduca i salari o i posti di lavoro in Europa e America. Non sono i più poveri a creare le migrazioni, ma le crisi e le guerre. La maggioranza dei poveri non migra, perché non ha i soldi e le energie per farlo. Per fermare i flussi serve fare in modo che le persone vogliano tornare a vivere nei loro paesi. Ma ci vorrà tempo".

     

    Duflo è consapevole che i successi in questo campo sono inizialmente impercettibili, poi incrementali. L'importante è muoversi un passo alla volta. Come nell'arrampicata, l'altra sua grande passione: "Ho appena iscritto mia figlia Noémie in una palestra di roccia qui a Boston, sembra piacerle. Ho già in mente di andare a scalare con lei", immagina, e ci invita a raggiungerla in una delle sue prossime uscite alpine. Perché quest'estate, con sua figlia, tornerà a bazzicare le falesie francesi che frequentava da ragazza, vicine a Cliffs, Chamonix, Buoux "dove viveva mia nonna", e la montagna SainteVictoire. "Presto Noémie sarà più forte di me. Chissà, probabilmente sarà lei a portarmi in vetta".

     

     

    Una carriera lampo

    Esther Duflo, 44 anni, nasce a Parigi. Per l'Economist è fra gli otto economisti più influenti al mondo, mentre Time la inserisce fra le cento persone più importanti al mondo. Nel 2014 ha ricevuto il prestigioso Infosys Prize in Scienze Sociali ed Economiche. Nel 2010 ha vinto la medaglia John Bates Clark, assegnata al miglior economista under 40 e considerata una sorta di preNobel; l'anno precedente aveva ricevuto dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il MacArthur Fellows Program, riservato alle personalità più geniali, ed è stata la più giovane ricercatrice a tenere una lezione al Collège de France. È cofondatrice e direttore dell'Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab e docente di Riduzione della Povertà e Sviluppo Economico al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston.

     

    Questo articolo è stato pubblicato come cover story su D il 25 febbraio 2017

     

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