Antonio Fraschilla per “l’Espresso”
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C’è una «grande sorella», una donna cinese, che muove miliardi di euro da proventi illeciti della comunità di Pechino in Italia.
Così la chiamano i pochi testimoni che hanno parlato con gli inquirenti. Una donna che gestisce per conto della Cina un enorme flusso di denaro, frutto di evasione e non solo, che viaggia dal nostro Paese verso le banche di Stato di Xi Jinping.
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E ci sono altri suoi connazionali, pochissimi, che insieme a lei hanno un filo diretto con la madrepatria per portare lì i miliardi di euro accumulati in Italia: «Parliamo di una cifra che abbiamo scoperto e che in parte stiamo monitorando pari ad almeno 2,5 miliardi che è stata trasferita in Cina, movimentata da diversi soggetti cinesi ma comunque da un gruppo ristretto», dicono dalla Guardia di finanza, che ha messo su un nucleo di verifica centrale proprio su questo fenomeno, dopo che le Fiamme gialle di mezza Italia stanno scoprendo meccanismi simili e identici: società fantasma e aziendine apri e chiudi che non pagano imposte e tasse, con proventi leciti e illeciti che non vengono investiti nei territori italiani ma che tornano tutti nella madrepatria lasciandosi dietro il deserto e una economia rasa al suolo.
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Ad ottobre L'Espresso, nell'inchiesta "Via della seta", ha raccontato alcune indagini tra Pordenone e Portogruaro, coordinate dai colonnelli della Finanza Stefano Commentucci e Michele Esposito, che lo scorso anno avevano acceso i riflettori su uno strano fenomeno: aziende che evadono le imposte con finte fatture e passaggi di denaro veri che poi finivano in Cina per una cifra pari a 250 milioni.
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In quelle indagini un ruolo centrale era ricoperto anche da una donna, sempre la stessa, che aveva organizzato il meccanismo: gli imprenditori del Nord-Est avevano necessità di evadere le imposte sul riciclo dei metalli, l'organizzazione cinese consentiva loro di trasferire denaro all'estero attraverso Bulgaria, Slovenia e Ungheria, per finte operazioni.
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Poi i cinesi, al centro commerciale di Padova, restituivano sacchi con milioni di euro in contanti agli italiani tenendosi per loro una piccola percentuale e ottenendo un altro risultato: far arrivare in Cina i loro capitali frutto del nero in Italia.
Poco dopo si è mossa anche la procura di Firenze con l'aggiunto Luca Tescaroli che ha indagato commercialisti italiani e imprenditori cinesi che vendevano ai grandi marchi del lusso attraverso aziende che evadevano le imposte e utilizzavano materiali arrivati dalla Cina in nero e poi, anche qui, rispedivano tutti i proventi in madrepatria.
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Una indagine, quest'ultima, che potrebbe a breve dare ulteriori sviluppi e che nel mirino ha messo gli intermediari della filiera dell'alta moda: per intendersi, le società di commercio che acquistano borse e capi di abbigliamento dalle aziendine cinesi e poi li rivendono alle griffe.
Ma queste indagini, che hanno come punto di collegamento il ritorno dei capitali in Cina, sono soltanto la punta dell'iceberg, come dimostrano le altre inchieste che sono andate avanti in questi mesi e che L'Espresso è in grado di raccontare.
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Indagini che stanno scoperchiando uno dei più grandi canali di riciclaggio e di trasferimento di denaro tra l'Europa e la Cina con numeri che stanno attirando l'attenzione, e la preoccupazione, anche dei servizi di intelligence americani e italiani.
L'ultima operazione che ha scoperto un invio di denaro dall'Italia alla Cina pari a 170 milioni di euro è stata quella della Guardia di finanza di Prato. Con un unico testimone che ha raccontato il meccanismo. Si tratta di una semplice testa di legno per alcune aziende fantasma gestite per emettere fatture fasulle per acquisti e vendite mai fatte.
GUARDIA DI FINANZA
Il testimone racconta di «essere entrato in contatto con una donna soprannominata "la grande sorella" nella comunità cinese che gli ha proposto di intestare, a suo nome, un'impresa a fronte del corrispettivo di 14 mila euro».
Dopo aver accettato l'offerta è stato contattato da un connazionale che gli ha fornito tutti i documenti per aprire la finta aziendina con tanto di sede vuota e mai utilizzata, chiaramente. Seguendo questo filone gli investigatori arrivano quindi a scoprire sette aziende fasulle che emettevano fatture per acquisto di materiale che in realtà non arrivava mai e sempre attraverso società compiacenti in Paesi come Slovenia, Ungheria e Bulgaria. Il denaro che finiva nei conti di queste aziende veniva raccolto e rispedito in Cina.
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Sono state dunque individuate sette ditte «che hanno effettuato l'esportazione verso la Cina di ingenti capitali per un totale di 65 milioni di euro». Continuando l'inchiesta, i finanzieri arriveranno a scoprire un invio di denaro pari a 170 milioni.
Anche la procura europea con la sua delegata a Venezia, la pm Donata Costa, si è mossa perché sta seguendo tutto questo grande filone che prevede in alcuni casi, spesso per la filiera della moda e per il commercio dei gadget turistici, anche l'importazione di materiale in nero dalla Cina e poi sempre il ritorno dei proventi illeciti nelle banche di Stato di Pechino.
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Nei giorni scorsi il nucleo di polizia economica e finanziaria guidato dal colonnello Fabio Demetto ha portato a termine una operazione contestando illeciti fiscali ad alcuni imprenditori cinesi per 8,5 milioni, ma soprattutto scoprendo una cifra «molto elevata, grandissima» di denaro che è ritornato in Cina.
Per tutti questi trasferimenti di soldi a Pechino è spesso difficile contestare il riciclaggio: in base alle nuove norme in materia occorre dimostrare infatti la provenienza illegale di queste somme. Alcuni cinesi sono stati fermati alla frontiera italiana con milioni di euro in contanti ma, al netto del sequestro delle somme trovate e non giustificate, non si e potuto fare molto altro perchédi fronte a una dichiarazione del tipo «ho trovato queste somme per strada» e quasi impossibile avviare una indagine a ritroso per capire da dove provengano in soldi.
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Per questo, al momento, gli inquirenti contestano in primis i reati fiscali e lasciano aperte le verifiche per il riciclaggio. Certo è che in tutte queste operazioni le banche coinvolte in Cina sono sempre le stesse e tutte controllate dallo Stato: come la The Agricultural bank of China, la Bank of China, la China citic bank, la Cina construction bank corporation.
Le operazioni scoperchiate hanno messo in evidenza trasferimenti in Cina per un miliardo di euro. Ma gli inquirenti stanno seguendo operazioni in corso di trasferimento di denaro per altri 1,4 miliardi di euro da parte di pochissimi soggetti. E sempre legati agli stessi circuiti.
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Mentre sono in corso indagini fotocopia anche in Piemonte, ad Alessandria per la precisione, e in Lombardia, a Milano. Al comando generale della Finanza a Roma, dove è stato messo in piedi un gruppo di monitoraggio proprio su questo fenomeno voluto dal comandante generale Giuseppe Zafarana, sono convinti che non siano singole operazioni di trasferimento messe in piedi da gruppi occasionali di cinesi.
Le fiamme gialle ritengono che ci sia una sorta di manuale fornito alle comunità cinesi per creare nero attraverso aziendine apri e chiudi e importazioni di materiale in nero dall'estero, distruggendo così la concorrenza con prezzi più bassi e riportando tutti i capitali in Cina. In questo modo non un euro resta in Italia come investimento. Una tesi che se dimostrata aprirà anche un fronte diplomatico.