Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica” – 29/08/2016
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«La musica salva il mondo, induce a stare insieme, illumina gli spazi, fa sì che gli esseri umani si ascoltino», dice con amichevole grazia Ezio Bosso accomodato su un sofà della sua dimora bolognese, col grande soffitto dalle volte antiche e lo spazio centrale dominato dalla bellezza sinuosa e lucida di un pianoforte a coda.
Per la maggior parte dell’umanità esistono un tempo per la musica e altri tempi per il resto. Per Ezio Bosso no, la musica è “sempre”. È il tempo della vita, della guarigione, del comunicare, del sentire amore, vitalità e piacere.
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«La musica è magia e non a caso i direttori d’orchestra hanno la bacchetta», dichiarò Bosso quest’anno all’Ariston di Sanremo, davanti alla sterminata platea televisiva del Festival, dopo aver fatto il suo ingresso sul palco in sedia a rotelle. Poi si mise a suonare con un’intensità che avvolse come un’onda di emozioni il pubblico nella sala, compatto nel tributargli un abbraccio in forma di standing ovation.
Bosso è un combattente fertile per creatività e per lo slancio nella diffusione della propria arte, «di cui sono solo un tramite», afferma sorridente. «La musica è una sfera empatica e io cerco di dare agli altri stimoli per trovare in ogni brano i rispettivi racconti».
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Nato a Torino nel ’71, ma ormai da decenni cittadino del pianeta («le due case in cui torno fra i vari viaggi sono a Londra e a Bologna, dove ritrovo la meravigliosa famiglia disfunzionale dei miei amici»), Ezio abita nella musica come in una dimensione «a cui devo tutto, anche il mio respiro».
Formatosi principalmente a Vienna come pianista, compositore, direttore d’orchestra e contrabbassista, si applica alla esecuzione dei classici («il vecchiaccio Bach non manca mai nelle mie giornate, e Beethoven lo sento come un padre») e alla scrittura di pezzi sinfonici, cameristici e solistici, oltre che di musiche destinate al teatro, alla danza e al cinema. Non è riuscita a distoglierlo dalla sua totalizzante vocazione nemmeno la malattia neurologica degenerativa con cui convive dal 2011, anzi.
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La vede addirittura come una modalità che può fargli esplorare nuove strade: «Suono ogni giorno finché il corpo lo permette, anche otto ore. Imparo a riconoscere ciò che può fare il mio fisico e ad assecondarlo nonostante gli ostacoli, perché è impossibile rinunciare alla gioia della musica. Ho dovuto adattarmi alla disabilità: mi serve uno sgabello alto e i miei tasti sono più leggeri del normale.
A volte non controllo una mano ma la musica svela sempre altre opportunità. Quando un dito non funziona ne uso un altro e magari esce un suono più bello; se la mano s’inceppa rallento il tempo, forse scoprendo che in tal modo mi piace di più. Allora lo rifaccio e mi diverto: in me non c’è frustrazione».
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Il pianoforte è un compagno amato e fidato lungo il cammino nelle “stanze” che fungono da filo conduttore del suo doppio album,The 12th Room. Lo formano un primo cd con dodici brani, sia suoi che di compositori storici, e un secondo che include una sua Sonata. The 12th Room Tour è anche il titolo dell’acclamato tour di concerti di cui è stato protagonista quest’estate in giro per l’Italia.
cui appartengo o che appartengono alla mia esperienza o alla storia delle stanze stesse», spiega. «Alcuni di questi brani mi hanno aiutato a tornare a suonare, cioè a uscire dalla stanza in cui mi aveva relegato la malattia. Altri sono pezzi che autori come Bach e Chopin hanno dedicato a storie di stanze, dato che tra le funzioni della musica c’è quella di farci vivere storie».
Secondo un’antica teoria, sostiene Bosso, la vita è composta da dodici stanze: «Nessuno può ricordare la prima perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo si realizzi nell’ultima stanza che raggiungeremo. Costruiamo stanze quando troviamo posti dove fermarci, attribuendo loro nomi e significati: la stanza dei giochi, della musica, dei sogni.
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La stanza della luce o quella cieca. Le stanze della memoria e quelle abbandonate. Le stanze del potere, dette “dei bottoni”. In certi momenti entro in una stanza priva di musica e vi resto bloccato a lungo, pensando di non uscirne più», racconta riferendosi al periodo in cui venne operato al cervello e la malattia gli impedì di suonare. «Comunque la mia stanza preferita è quella del pianoforte ».
Bosso è stato molto amico del direttore d’orchestra Claudio Abbado, che ha sempre promosso la musica in quanto inesauribile fonte di dialogo, terapia e salvezza. Come Claudio, scomparso due anni fa, Ezio crede nell’idea del “Zusammenmusizieren”, cioè del fare musica insieme, e ha dato quest’appellativo a un progetto in cui accoglie periodicamente, nella sede di Palazzo Barolo a Torino, musicisti di ogni età e livello per farli suonare con lui e per parlare di suono, di sicurezza di sé, di memoria e d’importanza dell’ascolto:
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«Non pontifico né faccio il santone: semplicemente condivido. Sono incontri aperti, anzi spalancati, dove arriva di tutto, dal quartetto che vuol provare un brano al bambino che suona Piva l’olio d’oliva ».
Lo stesso spirito anima i concerti di Bosso, rilassati e anti-accademici. Ogni pezzo è introdotto dai suoi discorsi fluidi e caldi, e gli spettatori sono persino invitati a non spegnere i cellulari, se lo desiderano: «Non bisogna porre la musica su un piedistallo. I cellulari non mi piacciono ma è più fastidioso un colpo di tosse che s’inserisce in un “pianissimo”».
Non gli piace il termine “musica classica”: «Preferisco parlare di musica libera da costrizioni e forme di ego. La musica di cui mi occupo è universale: Beethoven puoi suonarlo anche in Africa e arriva a chiunque. Ciò che scrivono Bach o Beethoven non ha regole di mercato né di nicchie o d’intellettualismo. E poi non c’è la mia musica: esiste la nostra».
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La musica è salvezza non solo per chi suona, ma per chi ascolta assimilandola naturalmente: «Spaventano certi busti di compositori, tutti severi e antipatici. Io cerco di descriverne al pubblico l’umanità. Mi piace, ad esempio, parlare di Chopin anche con ironia, mostrando un uomo che dal punto di vista della salute era un bel po’ sfigato come me. Col mio amico Mario Brunello ho fatto molta musica da camera, e insieme proviamo a dare un senso narrativo a ciò che suoniamo, per far capire che le note derivano da una persona, dal suo contesto, dalle sue esperienze».
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Quanto al clamore ottenuto a Sanremo, Bosso non ne minimizza gli effetti, ma specifica che al festival ha parlato solo «di quel che dico continuamente nei miei concerti così come chiacchierando con gli amici e al bar. Sanremo è stato un vettore enorme, però non ci sono andato per me stesso, ma per la musica, che è di tutti. La cosa bella è quando sento l’ovazione dopo Bach e comprendo di aver incuriosito i giovani, i quali vorranno sentirne ancora».
Tornerà in televisione Bosso? «Dopo Sanremo mi sono arrivati gli inviti televisivi più assurdi. Mi hanno chiesto persino di partecipare a programmi sul calcio. Ma io non so niente di calcio! In tivù tornerò solo quando trasmetteranno un concerto in prima serata».
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