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    PUR DI SFUGGIRE ALLA MORSA MONTI-BERLUSCONI-NAPOLITANO, BERSANI E’ DISPOSTO A SPEDIRE IL PROFESSORE AL QUIRINALE - CULATELLO IN TRAPPOLA: UN PREMIO DI MAGGIORANZA BASSO (10%) E ASSEGNATO AL PRIMO PARTITO E NON ALLA COALIZIONE SAREBBE L’APOCALISSE PER I SINISTRATI - NON A CASO GLI ALTRI SONO TUTTI D’ACCORDO, DA PIERFURBY A CALDEROLI (CHE FLIRTA CON VERDINI) - L’INCUBO DEI BERSANIANI: UN GOVERNO MONTI BIS CON GIANNI E ENRICO LETTA VICEPRESIDENTI…


     
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    Giorgio NapolitanoGiorgio Napolitano

    Francesco Verderami per il "Corriere della Sera"

    Toccare il sistema elettorale è come metter mano alla legge sulla relatività, perché un nuovo meccanismo di voto si porterebbe appresso un nuovo sistema politico: non muterebbero infatti solo le regole del gioco per la futura sfida di Palazzo Chigi, ma cambierebbero anche i protagonisti della prossima corsa al Quirinale. Sarebbe insomma un'autentica rivoluzione. Così si spiegano le difficoltà che stanno incontrando le forze della «strana maggioranza» a trovare un'intesa sulla riforma.

    BERSANI TIRATOBERSANI TIRATO

    Ed è vero che Napolitano aveva anticipato ai leader un suo intervento, qualora non fossero riusciti a superare lo stallo. Ma nonostante questo, la mossa del capo dello Stato ha destato sorpresa in tutti i palazzi della politica, malgrado tutti si siano affrettati a condividere il suo messaggio.

    A ferire non sono state tanto le parole con le quali il presidente della Repubblica ha chiesto che le trattative non restino «al chiuso» delle «consultazioni riservate», sebbene i precedenti storici - dal Mattarellum allo stesso Porcellum - raccontino che le intese su un tema così delicato sono sempre state raggiunte prima di approdare alle Camere. A stupire è stato soprattutto il passaggio in cui Napolitano, esortando a rompere gli indugi, ha prospettato la possibilità che la legge si formi attraverso il voto delle maggioranze in Parlamento.

    Nessuno mette in dubbio che il Quirinale abbia cercato di offrire una soluzione per superare l'impasse. L'inquilino del Colle, peraltro, ha voluto spiegarlo ai suoi interlocutori: piuttosto che «restar impantanati in un negoziato» senza sbocchi, il confronto nelle Camere darebbe «l'opportunità di arrivare a un accordo» che altrimenti rischierebbe di non concretizzarsi mai. Ma la preoccupazione, bipartisan, è che in Parlamento si inneschi la logica del muro contro muro, che voti segreti e maggioranze variabili partoriscano una riforma frutto di un patchwork legislativo e non di un progetto ordinato.

    CASINICASINI

    Il punto è che ormai diventa difficile tornare indietro. Non c'è più molto spazio per ulteriori mediazioni «riservate». Ed è come se ieri Napolitano abbia di fatto dettato il fixing, siccome il punto di partenza da cui avviare il confronto in Parlamento è quella bozza scritta dagli sherpa di Pdl, Pd e Udc, con le notazioni a margine sui nodi controversi della trattativa.

    Dal quadro sinottico emerge il posizionamento dei tre partiti, e s'intuisce che la sortita del Colle mette in difficoltà soprattutto il Pd. Come notava ieri Casini - analizzando le diverse posizioni - «in effetti c'è una convergenza oggettiva tra noi e il Pdl», entrambi sostenitori delle preferenze e di un premio di maggioranza basso (il 10%) da affidare al primo partito.

    ROBERTO MARONIROBERTO MARONI

    La «convergenza» coinvolgerebbe anche la Lega. Sebbene Maroni dica «no ad accordi sottobanco», il Carroccio è della partita. La scorsa settimana infatti Calderoli ha incontrato Verdini, garantendosi un emendamento che va a vantaggio del movimento padano, laddove nella bozza è scritto che se un partito non raggiungesse il 5% su base nazionale, parteciperebbe comunque all'assegnazione dei seggi qualora superasse il 10% «in almeno due circoscrizioni».

    È chiaro che un'eventuale maggioranza sulla legge elettorale non sarebbe una maggioranza politica. Ma è altrettanto chiaro il motivo per cui Bersani sia risentito. Contrario com'è alle preferenze e a un premio di maggioranza «troppo basso», il leader del Pd ritiene che «con una simile riforma elettorale staremmo a mezza via tra Tangentopoli e la Grecia».

    Evocando Atene, il capo dei Democrat fa capire che questo modello di voto sarebbe il preludio alla grande coalizione, perché nessuna forza politica - sondaggi alla mano - può vantare numeri tali da bipolarizzare il sistema.

    DARIO FRANCESCHINIDARIO FRANCESCHINI

    Ecco come il montismo potrebbe sopravvivere a Monti, con una differenza sostanziale rispetto all'attuale assetto: la prossima guida del governo toccherebbe a un politico. Non a caso Bersani ieri sul Corriere ha sottolineato che «toccherà a noi creare la maggioranza»: è stato un modo per replicare a Monti che appare orientato a restare in campo, per avvisarlo che spetterebbe comunque al partito uscito vincente dalle urne incaricarsi di costruire l'alleanza di governo. È il modello tedesco, che ha consentito alla Merkel di trovare un'intesa - dopo il voto - con l'Spd, e di diventare cancelliere.

    Altre deleghe ai tecnici non sono contemplate, pena l'abdicazione definitiva dei partiti. Resta il fatto che il futuro di Monti in politica è separato dalle decisioni sulla legge elettorale. Un conto è la riforma del sistema di voto che potrebbe portare alla grande coalizione, altra cosa è il destino del professore, che - come dice spesso il capogruppo del Pd Franceschini - potrebbe avere «lo stesso cursus di Ciampi», diventato ministro dell'Economia dopo esser stato presidente del Consiglio e prima di venir eletto al Quirinale: sarebbe un segnale di garanzia per l'Europa e i mercati. Certo è difficile disegnare oggi i futuri scenari, ma una cosa è certa: se cambiasse la legge elettorale cambierebbero anche gli sfidanti per la corsa al Colle.

     

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