Francesca Santolini per www.lastampa.it
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Nella notte tra il 14 e il 15 marzo, il ciclone Idai ha devastato la città portuale di Beira, in Mozambico, per poi seminare desolazione nei vicini Malawi e Zimbabwe.
Di Beira, 500mila abitanti, la seconda città più grande del Mozambico, non resta più niente , è stata rasa al suolo per l’80%: case inghiottite dalle inondazioni, ponti e strade spazzati via dal vento, ospedali distrutti, danneggiato il sistema di acqua potabile della città e niente corrente elettrica. In questo Paese del sud-est dell’Africa, che con i suoi 30 milioni di abitanti è tra i più poveri al mondo, il bilancio è gravissimo: almeno 400 morti, più di 1500 feriti, 15.000 sfollati.
Secondo le Nazioni Unite si tratta di “uno dei più gravi disastri ambientali ad aver colpito l’emisfero meridionale». Uno scenario apocalittico, è quello che viene descritto anche dalle Ong presenti sul campo, con i corpi delle persone che galleggiano nelle strade allagate e i sopravvissuti che cercano riparo tra gli alberi e sui tetti degli edifici rimasti in piedi. Numerose infrastrutture sono andate distrutte, rendendo l’accesso alle altre regioni colpite molto complicato. Quattro grandi province che raggruppano circa 12 milioni di abitanti sono sott’acqua e le persone non possono essere soccorse se non in elicottero.
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Drammatico anche il racconto del capoprogetto di “Medici Senza Frontiere” Gabriele Santi : “il primo problema sono le case, la gente non ha rifugio, sono senza un tetto sulla testa. Poi l’acqua, la gente beve acqua dai canali o da terra, ma è acqua sporca che può portare malattie. L’ospedale è di fronte all’oceano e ha ricevuto in pieno il ciclone, quindi la devastazione dell’ospedale è ancora maggiore. 17 centri di salute sono stati gravemente danneggiati, l’ultimo è crollato”.
L’altro problema è il cibo . In totale, sono 1,7 milioni gli abitanti che si trovano nella traiettoria di Idai. Sul lungo termine, le conseguenze di questo tipo di inondazioni potrebbero essere catastrofiche in un’Africa australe in cui la maggior parte del cibo arriva dalle zone agricole. In Mozambico, che nella graduatoria dell’Indice di sviluppo umano relativa al 2011 occupava la 184esima posizione su un totale di 187 paesi, i raccolti di quest’anno sono totalmente compromessi, un problema per l’80 % della popolazione che vive coltivando la terra. Per questo, Amnesty International ha richiamato la comunità internazionale a mobilitarsi non solo di fronte all’urgenza umanitaria, ma anche ad agire contro le conseguenze del cambiamento climatico che rendono sempre più violenti e estremi questi fenomeni.
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Alcuni scienziati hanno recentemente affrontato il tema del riscaldamento nell’area dell’Oceano Indiano meridionale nel South African Journal of Science . Secondo gli esperti, mentre l'acqua si riscalda, si estende l'area con temperature favorevoli alla formazione di cicloni tropicali. Parallelamente il cambiamento climatico sta interessando un numero sempre maggiore di aree tropicali, con l’intensificazione dei cicloni. La Categoria di cicloni numero 5, che l'Atlantico del Nord conosce da quasi un secolo, ha iniziato a colpire l'Oceano Indiano meridionale solo dal 1994, ad un ritmo che da allora non ha cessato di aumentare.
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Man mano che i cambiamenti climatici continueranno e si intensificheranno, queste tempeste si moltiplicheranno e questo si tradurrà in una maggiore frequenza, non solo di danni gravi causati dalle tempeste, ma anche di danni su aree sempre più ampie. Il punto, quindi, è che l’aumento delle temperature medie aumenta anche la probabilità che si scatenino tempeste perfette, o altri fenomeni meteorologici di vasta portata con relativi impatti sugli ecosistemi e sulle persone che li abitano . Come è successo in Mozambico, dove centinaia di migliaia di persone sono oggi vittime e testimoni delle conseguenze devastanti del cambiamento climatico in corso, pagandone il prezzo più alto senza esserne la causa (l’Africa è responsabile del 4% delle emissioni di gas serra sul pianeta).
*NEL 2050 143 MILIONI DI PERSONE SARANNO MIGRANTI CLIMATICI
Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration”. Il titolo del rapporto della Banca mondiale sulle migrazioni climatiche ha il merito della chiarezza. Perché tratta di un fenomeno di dimensioni enormi e dalle conseguenze potenzialmente devastanti, con le quali dovranno confrontarsi i Paesi nell’epoca del climate change.
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Il rapporto concentra l’attenzione su tre regioni, l’Africa subsahariana, l’Asia del Sud e l’America latina, che rappresentano il 55% della popolazione dei Paesi in via di sviluppo. Gli esperti interpellati dall’istituto internazionale, stimano infatti che questa area geografica potrebbe subire degli spostamenti interni, al di là dei conflitti armati, di un’ampiezza pari a 143 milioni di persone entro il 2050 (...)
2. CNR, ECCO COME I CAMBIAMENTI CLIMATICI SPINGONO L’ARRIVO DI MIGRANTI IN ITALIA
Estratto dell’articolo di www.greenreport.it
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(…) Il legame tra migranti e riscaldamento globale è ormai ampiamente accertato in letteratura scientifica, ma adesso per la prima volta uno studio – Linear and nonlinear influences of climatic changes on migration flows: a case study for the ‘Mediterranean bridge’, dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia) – si preoccupa di valutare quantitativamente l’influenza dei cambiamenti climatici sulle migrazioni dalla fascia africana del Sahel all’Italia. Un dato che dovrebbe interessare anche il ministro Salvini, dato che queste «rappresentano circa il 90% degli ingressi sul nostro territorio dalla rotta mediterranea», spiega Antonello Pasini, ricercatore del Cnr-Iia e autore dello studio svolto in collaborazione con Stefano Amendola, dottorando in fisica dell’Università di Roma Tre.
Per un’analisi più accurata, i ricercatori si sono concentrati sul periodo 1995-2009, precedente alle primavere arabe e alla crisi siriana, escludendo così conflitti recenti ed evidenziando meglio eventuali incidenze climatiche. «Nello specifico – argomenta Pasini – abbiamo utilizzato un semplice modello lineare e un altro più sofisticato di intelligenza artificiale, un sistema a rete neurale recentemente sviluppato dal nostro gruppo, in grado di evidenziare cambiamenti non graduali ed effetti del superamento di determinate soglie nelle variabili meteo-climatiche. Con il modello a rete neurale siamo stati in grado di spiegare quasi l’80% della variabilità nelle correnti migratorie verso l’Italia, prendendo in considerazione i soli dati meteo-climatici, per causa diretta e per influenza sull’ammontare dei raccolti annuali».
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L’agricoltura rappresenta quindi un collegamento tra cambiamenti climatici e migrazioni. «Raccolti poveri ed eventuali carestie, congiuntamente alle ondate di calore durante la stagione di crescita, amplificano il fenomeno migratorio», chiarisce Pasini. Ma il fattore dominante che ha indotto queste migrazioni sembra essere però la temperatura, tanto da far pensare che il superamento di una soglia di tolleranza termica, umana ed animale, possa avere un ruolo primario sulle variazioni dei flussi migratori. «Oggi sappiamo che i paesi africani sono molto vicini a queste soglie. I nostri risultati modellistici rappresentano ovviamente solo un primo passo verso studi più ampi, che possano vedere la collaborazione con scienziati sociali per una valutazione più completa di tutti i fattori che influenzano le migrazioni – conclude il ricercatore Cnr – Nonostante ciò, ritengo che già ora le evidenze presentate in questo studio vadano seriamente prese in considerazione dal mondo della politica, affinché anche in Africa si adottino strategie doppiamente vincenti, come il recupero di terreni degradati e desertificati, che possano condurre a mitigare il riscaldamento globale e, nel contempo, a creare situazioni che prevengano il triste fenomeno delle migrazioni forzate»
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