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Marco Giusti per Dagospia
Gnam! Gnam! Torna il cannibal+distaster movie. Stavolta in salsa uruguagia-cattolica, dove i giovani sono pronti a sacrificarsi per il bene della comunità, a dare il loro stesso corpo.
Film conclusivo dell’ultimo festival di Venezia, e non fu una buona idea metterlo alla fine, visto che in molti lo saltammo, “La società della neve” diretto dallo spagnolo Juan Antonio Bayona, scritto con Bernat Vilaplana e Jaime Marques tratto dal libro di Pablo Virci, interpretato da un cast di attori uruguagi per noi sconosciuti, Enzo Vogrincic, Agustín Pardella, Matías Recalt, è una spettacolare ricostruzione in due ore e mezzo della celebra tragedia delle Ande del 1972 e di come riuscirono a salvarsi sulla Cordigliera delle Ande, anche mangiando i propri amici defunti, i 29 sopravvissuti del volo Air Force Flight 571 che trasportava da Montevideo a Santiago del Cile 45 passeggeri al seguito della squadra nazionale di rugby.
Tra i 29 si salvarono in realtà soltanto dei giovani atleti. E solo grazie alla forza di due di loro che scavalcarono le Ande alla ricerca di aiuto e lo trovarono, i soccorritori cileni riuscirono a salvare il gruppetto dopo tanti giorni di inutili ricerche.
Lo trovate in esclusiva in questi giorni su Netflix, risulta anzi uno dei film più visti in assoluto sulla piattaforma, anche se la grande fotografia di Pedro Luque e la minuziosa messa in scena di Bayona, specializzato in film spettacolari come “The Impossible”, lo spettacolare film sullo tsunami, ne fanno qualcosa che avrebbe bisogno proprio del grande schermo per respirare. Tanto che la Spagna lo ha candidato agli Oscar come miglior film straniero con ottime probabilità di arrivare almeno nella cinquina finale.
Dei tre film che vennero dedicati alla storia, il primo, il più trash e il più cannibal, diretto nel 1976 dal messicano tuttofare René Cardona e distribuito in tutto il mondo da Allan Carr e Robert Stigwood, “I sopravvissuti delle Ande” con Hugo Stiglitz e Pablo Ferrel, il secondo, il più ricco, diretto nel 1993 dall’americano Frank Marshall, “Alive – Sopravvissuti” con Ethan Hawke e Vincent Spano, questo è quello più strutturato, meglio scritto e diretto e il più vicino alla realtà.
Anche se le spettacolari scena sulla Cordigliera delle Ande, dove si schiantò l’aereo e diventò un puntino introvabile sulla neve per i ricercatori, sono in gran parte girate vicino Granada, Bayona ci mostra una scena dell’impatto ricostruita magistralmente e è preciso e documentatissimo nel raccontarci cosa avvenne dopo.
Soprattutto come il gruppo dei sopravvissuti si salvò, grazie all’idea di due ragazzi che sfidarono le Ande e, avendo capito che erano stati dati per morti dai soccorritori, partirono loro verso il Cile alla ricerca di aiuto. Ma, soprattutto, Bayona lavora sulla cultura altamente cattolica dell’Uruguay del tempo. Fa effetto vedere oggi tutti questi ragazzi che pregano, ma era così anche da noi.
E i protagonisti della storia hanno quasi tutti nomi italiani oltre a fare parte di un team. E’ proprio l’idea di un team unito, di un gruppo che sa che solo con l’aiuto di tutti ci potrà essere una salvezza, quella che viene fuori come vera risorsa vincente in una situazione che in 72 giorni al gelo, nel posto più sperduto del mondo, pare impossibile da superare. Anche perché sappiamo che i soccorritori cileni sbagliarono completamente sul possibile luogo del disastro. E per questo non riuscirono a trovare i resti dell’aereo.
Va da sé che nei precedenti incidenti accaduti sulle Ande non si era mai salvato nessuno. E che la Cordigliera, lo spiega anche il film, funziona un po’ da risucchio mortale per i piccoli aerei che cercavano di attraversarla. Il cannibalismo, che contribuì enormemente al successo del primo film, quello di René Cardona, esperto in film popolari di luchadores messicani come El Santo, alla fine non è l’elemento principale della storia, anche se probabilmente ha permesso ai 29 dispersi nella neve di sopravvivere per 72 giorni.
Resta però un argomento fondamentale all’interno dei dialoghi tra il team di rugby. E Bayona, che molto ha lavorato sul film e sulla cultura uruguagia del tempo, lo inserisce con accortezza assieme a un forte misticismo che nel Sudamerica dei primi anni ’70 doveva essere ben vivo. Da vedere assolutamente.
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