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Ettore Livini per “Affari & Finanza - la Repubblica”
Distruggono milioni di posti di lavoro. Altrettanti ne creano, migliori e meglio retribuiti. A patto che la formazione duri per tutta la vita lavorano 24 ore su 24. Non fanno pause pranzo, non si ammalano, non hanno bisogno di mascherine e distanziamento. E - soprattutto - cancellano in azienda il rischio dell' errore umano. Benvenuti nel mondo fatato (per le imprese) dei robot. Una volta erano materiale da film di fantascienza.
Oggi sono realtà: ben 2,5 milioni sono già in attività e il loro numero raddoppierà nel 2025. Si occupano in prima persona del 30% dei lavori necessari per far funzionare il pianeta. Hanno cavalcato il Covid alla grande con un' impennata dell' utilizzo - garantisce il Fondo Monetario internazionale - «proporzionale alla gravità della crisi sanitaria del singolo Paese». Tra quattro anni per la prima volta nella storia si faranno carico di più occupazioni degli esseri umani riaprendo l' eterno dibattito che ha accompagnato nei secoli tutti i salti quantici delle tecnologie: ci sarà abbastanza lavoro per noi umani?
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La risposta, ammettono anche gli accademici, non è semplice. Di sicuro il processo di sostituzione - tecnologia al posto di lavoro fisico - corre veloce e non riguarda più solo le attività manuali: Morgan Stanley ha appena delegato agli algoritmi l' esame legale di tutti i suoi accordi commerciali, con un risparmio di 360mila ore-avvocato l' anno.
Big Pharma affida a intelligenza artificiale e deep-learning la fase iniziale di ricerca sulle nuove molecole per le cure, pratica che ha tagliato da 4-5 anni a 18 mesi il tempo di arrivo di alcuni medicinali sul mercato. La pandemia ha convinto molti aeroporti a ridurre al minimo i controlli di sicurezza tradizionali, affidando a riconoscimento facciale, raggi X anti esplosivi e scanner biometrici la sicurezza degli scali.
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QUANTI NE CREA, QUANTI NE DISTRUGGE
L' invasione dei robot, insomma, marcia a pieno regime. E non è semplice capire quanti lavori tradizionali distrugga e quanti ne crei. I numeri dei mestieri messi a rischio dalle nuove tecnologie è, teoricamente, enorme e molto variabile a seconda della fonte. Uno studio vecchio di qualche anno dell' Università di Oxford sosteneva che il 47% delle professioni che esistono oggi è minacciata dalla supplenza delle macchine. McKinsey calcola che 45 milioni di dipendenti americani, il 27% del totale, verranno sostituiti da robot o dalle macchine entro il 2030 e dovranno cercarsi un altro posto.
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L' Ocse quantifica nel 14% le occupazioni a rischio automazione con una forbice ampia a seconda dei Paesi - da un minimo del 6% della Norvegia fino al 34,6% della Slovacchia - e delle professioni, dall' 1,1% degli amministratori delegati al 50,1% di persone che si occupano di confezionamento di prodotti alimentari. Amazon del resto ha già lanciato i supermercati senza cassieri e intere categorie che hanno segnato il Novecento - dai commessi ai contabili, dai segretari agli autisti di camion - sono a rischio di estinzione.
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Le professioni più automatizzabili - dice uno studio della Fed di Philadelphia del 2021 - perdono il 4,2% in più dei posti di quelle più protette. Ogni robot installato negli Stati Uniti - calcola uno studio del Massachusetts institute of Technology di Daron Acemoglu e di Pascual Rastrepo - ha sostituito 3,3 dipendenti eliminando (anche tenendo conto degli aumenti di produttività e dei posti creati) un lavoratore ogni mille.
Il copione, in fondo, è lo stesso di tutte le rivoluzioni tecnologiche: prima i contadini si sono riciclati come operai, poi gli operai sono diventati impiegati. «E anche i robot - assicura l' Ocse in uno studio appena pubblicato - non porteranno a un futuro senza lavoro ma a un futuro con lavori diversi ». Quanti e di che qualità è il problema. «L' automazione fino ad oggi ha avuto l' effetto di accentuare le disuguaglianze - dice Acemoglu del Mit - e l' arrivo dei robot ha introdotto un gap di benessere di cui beneficiano i lavoratori ad alta specializzazione ai danni di quelli con qualifiche più basse».
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Chi già è indietro, insomma, rischia di rimanere ancora più indietro e fatica a trovare un nuovo mestiere. Mentre le persone più preparate intercettano con facilità le opportunità - remunerate molto meglio - aperte dalla gestione e dall' elaborazione creativa dei lavori fatti dai robot.
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Vale, a giudicare dai primi studi disponibili, anche per l' Italia: Mauro Caselli, Andrea Fracasso, Sergio Scicchitano, Silvio Traverso, Enrico Tundis hanno analizzato in una ricerca per la Global Labor organization gli effetti della robotizzazione nelle aziende tricolori dal 2011 al 2018. I risultati "quantitativi" sono rassicuranti per chi teme scenari apocalittici: «Nell' ultimo decennio l' introduzione dei robot non ha portato a effetti sull' occupazione a livello locale», dicono i ricercatori, spiegando che i mestieri più penalizzati, dopo un' analisi empirica, erano non tanto le attività routinarie ma «quelle che prevedono un intenso impegno dei muscoli addominali, lombari e del busto». I risultati qualitativi però evidenziano gli stessi problemi emersi all' estero: «Il cambiamento tecnologico della robotizzazione non è neutrale - sostengono gli autori dello studio - ma spiazza alcuni lavoratori e ne favorisce altri».
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La risposta più semplice a questo problema sarebbe chiara: formare le persone in modo da garantire loro un nuovo impiego. Gli Stati Uniti hanno varato un piano massiccio per favorire l' accesso alle scuole pubbliche quando tra '800 e '900 l' industria ha iniziato a sostituire l' agricoltura. E dopo la seconda guerra mondiale hanno inventato una sorta di piano Marshall per favorire l' iscrizione ai college.
Oggi però gli investimenti di Washington nella formazione si sono dimezzati rispetto a 30 anni fa.
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Paesi come la Danimarca spendono (con successo) fino al 2,5% del Pil per la ricollocazione dei disoccupati, ma molte nazioni sono a cifre da prefisso telefonico. «Le autorità hanno pensato a tamponare l' emergenza con interventi come il sussidio disoccupazione, il reddito minimo garantito o con giri di vite fiscali sui ricchi e sui robot - dice il Fondo Monetario internazionale - ma la vera soluzione è investire di più su educazione e formazione ». Il messaggio è chiaro: non bisogna lottare contro i robot contendendosi lo stesso posto di lavoro, ma bisogna imparare a collaborare con loro, facendo da supplenti in tutte quelle funzioni creative e applicative dove loro - per ora - non hanno i nostri talenti.
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«Servono programmi di formazione professionale che durino tutta la vita e non si chiudano dopo la scuola - è il suggerimento dell' Ocse - finanziati dallo Stato e dalle imprese». Una sfida impegnativa anche per l' Italia, che sul fronte della produzione e anche dell' utilizzo dei robot è da sempre all' avanguardia. Dovremo imparare a conviverci e a reinventare un futuro assieme a loro. Una partita che non si può giocare con armi vecchi e spuntate come i navigator.