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    “L’ASTERISCO E LA SCHWA? SOLUZIONI PER ESSERE CONSIDERATI “BUONI” - CLAUDIO MARAZZINI, PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA, MENA DURO: “IL GENERE GRAMMATICALE NON È SOVRAPPONIBILE A QUELLO SESSUALE. È UNA SCELTA DI CONFORMISMO CHE EVITA PROBLEMI E DÀ VISIBILITÀ MEDIATICA. POTREI ESSERE ANTIFEMMINISTA ANCHE CON GLI ASTERISCHI…”


     
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    Giulia Cazzaniga per "la Verità"

     

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    Claudio Marazzini dal 2014 è il presidente dell'Accademia della Crusca, punto di riferimento nel mondo per le ricerche sulla lingua italiana. Nata sul finire del Cinquecento con un programma culturale e di codificazione, l'accademia prende il suo nome dalla metafora di ripulitura del linguaggio, separazione tra crusca e farina. Qualche giorno fa questa istituzione ha «bocciato» schwa e asterischi, bandiere di un linguaggio inclusivo. Lo ha fatto con una risposta ufficiale ai numerosi quesiti giunti negli ultimi mesi, pubblicata online: Marazzini racconta che ha incontrato il consenso dei più illustri linguisti italiani, come Luca Serianni, oggi docente alla Sapienza.

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    Professore, il dibattito sul tema è acceso, vi siete esposti a polemiche, immagino.

    «Ce ne sono state, sì, d'altra parte molti intellettuali si sono già espressi sull'introduzione di asterisco e schwa, alcuni a favore, altri contro. Ma il verdetto ufficiale dell'Accademia, in sintesi, è questo: l'asterisco e lo schwa rompono indebitamente un sistema generale caratterizzato dalla corrispondenza tra suono e grafia ».

     

    Impronunciabili, quindi inaccettabili?

    «Lo schwa addirittura introduce un suono che non esiste, cioè pretende di cambiare artificialmente la pronuncia di una lingua reale. Inoltre questi espedienti non risolvono tutti i problemi. "Car* amic*" dovrebbe stare per "cara amica / caro amico", ma per distinguere "professore / professoressa" come dovrei scrivere? Professor*? E quante lettere sarebbero racchiuse dentro quell'asterico? Una? Quattro? Quante voglio, insomma. Come dire: mettici quello che vuoi tu. O dovrei utilizzare un'indistinta finale?».

     

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    Eppure al liceo Cavour di Torino hanno iniziato a introdurre l'asterisco anche nelle comunicazioni ufficiali.

    «Sono torinese e ho studiato proprio in quel liceo, come anche mia figlia, ma devo condannare l'innovazione. Come ha scritto Paolo D'Achille nella sua risposta a nome dell'Accademia, la lingua formale non può accettare l'asterisco. Provi a immaginare una legge dello Stato piena di asterischi. Sarebbe un bel problema: sono testi già difficili da interpretare con l'italiano naturale».

     

    Resta inteso che ciascuno può scrivere in fondo come vuole?

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    «Credo sia ovvio che nessuna accademia linguistica del mondo ha il potere di imporre d'autorità le soluzioni che ritiene migliori. La Crusca si limita a fornire suggerimenti ben ponderati. Il fatto è che la lingua funziona secondo meccanismi collettivi autonomi, che si fondano sul consenso maggioritario degli utenti, sulla tradizione, sulle regole trasmesse dalla scuola. Gli insegnanti gettano le basi della riflessione grammaticale. Poi ogni utente si comporta secondo le proprie convinzioni, giuste o sbagliate che siano: esistono zone grigie in cui talora la norma linguistica oscilla. Ad esempio, il pronome "gli" per il femminile e per il plurale: "gli dico" per "dico loro" e per "le dico". La maggior parte delle regole, però, è stabile e condivisa, e non permette elusioni, pena la censura collettiva».

     

    Lei si è battuto per non utilizzare nemmeno «green pass», in favore di «certificato o passaporto» vaccinale. Ma è entrato nel linguaggio comune.

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    «Certo, anche nel mio, perché la lingua è un sistema collettivo e "green pass" è entrato stabilmente nell'uso. Ma mi diverto molto quando, nel treno Freccia Rossa, il controllore chiede il "green pass" in inglese ad anglofoni nativi, e questi cadono dalle nuvole, perché non sanno che cos' è. Il nome vero è semmai "digital Covid certificate" o "certificazione Covid". "Green pass" è inteso solo in pochissimi luoghi del mondo, e non nei Paesi anglofoni. Ma agli italiani piace tanto credersi inglesi più degli inglesi, o illudersi di essere internazionali a buon mercato. Sono stato battuto, se vuole, come pure su Covid al femminile, perché sciogliendo l'acronimo anche l'accademia di lingua francese, l'Académie française di Parigi, sottolineava la presenza della parola "desease", malattia. Però nella lingua vince sempre la maggioranza».

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    Rischia quindi di finire così anche per asterischi e schwa?

    «Onestamente spero di no, ma fare i profeti è difficile. La maggior parte degli storici della lingua è del parere che fallirà, come è accaduto per la maggior parte dei tentativi di riforma della grafia fin dal Cinquecento. Il problema, in questo caso, è la forte spinta internazionale a sostegno di un presunto linguaggio "inclusivo". E la comodità, anche».

     

    Comodo nel senso di utile?

    «No, nel senso che se si abbracciano queste soluzioni si è considerati automaticamente dalla parte dei "buoni". Si tratta di una scelta di conformismo che evita problemi. E in questo momento dà anche visibilità mediatica».

     

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    La lingua condiziona percezioni e pensieri? È un filtro attraverso il quale vediamo la realtà?

    «Gli specialisti di linguistica, antropologia e scienze cognitive hanno dato risposte differenti. Un tempo si credeva che le popolazioni Inuit "vedessero" la neve in modo diverso, perché si credeva che la loro lingua avesse un'infinità di parole per definire i diversi tipi di neve. Poi si è scoperto che non avevano tutte quelle parole. Per di più, anche chi non ha le parole specifiche può cogliere le differenze tra la neve ghiacciata, quella farinosa, quella molle e fradicia. Insomma, le etichette non condizionano la percezione del reale, che è cosa diversa. Quindi il cosiddetto "filtro" della lingua non va sopravvalutato. Ogni lingua può dire tutto, anche se lo dice in modo diverso».

     

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    In questo caso c'è in ballo la questione del genere, o gender.

    «Sì, ma come scrissero già nel 1984 Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss, due colossi della cultura del Novecento, il genere grammaticale non è completamente sovrapponibile al genere sessuale, ma segue altri percorsi, cioè rappresenta un sistema di concordanze per far funzionale la lingua come sistema. Posso avere "la zebra" e "la lontra" per indicare animali, siano essi maschi o femmine. In altri casi ho i due generi: leone e leonessa. Ma la tigre è femminile anche se maschio, salvo "il tigre" che si metteva nel motore in un'epoca anteriore al risparmio ecologico di benzina, nella campagna pubblicitaria della Esso degli anni Sessanta».

     

    L'italiano è tacciato di essere sessista, patriarcale, non inclusivo. Quindi da cambiare.

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    «Una lingua non è mai tale. Al massimo lo sono i parlanti. Potrei essere patriarcale e antifemminista anche con gli asterischi. La correttezza e l'eleganza nella lingua dipendono, io credo, dal garbo con cui ci si rivolge agli altri, anche senza manomissioni artificiali. Molto spesso, ribadisco, le manomissioni nascono da una sorta di conformismo. Sono un modo per esibire la propria appartenenza ad un gruppo, o un modo per evitare contestazioni, per mettersi in sicurezza, o per cercare consenso».

     

    Oggi bonificare la lingua, e la storia, è una moda?

    «Sì, pare che molti avanzino pretese per cambiare rapidamente la lingua a loro volontà, magari in buona fede, convinti di compiere un atto di civiltà. Le cose non sono però così semplici».

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    Ha un colore politico questa tendenza?

    «Finché si tratta di indicare i corrispondenti femminili di professioni un tempo esclusivamente maschili, le soluzioni si presentano facili. "Ministra", "avvocata" e via dicendo non dovrebbero stupire nessuno, e non creano problemi nel sistema della lingua. Diverso il caso di chi vuole modificare pronomi, grafia o persino pronuncia. Poi c'è chi vuole cancellare le parole "scorrette". Ci sono ragazzi che non osano più dire "vecchio", credendo che sia sempre un insulto».

     

    O «negro», indicata da Repubblica come «la parola con la N».

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    «Certo, con grande imbarazzo degli spagnoli, che hanno solo la parola "negro" per dire "nero". Un colore, insomma, come per noi le "negre chiome" in A Silvia di Leopardi. Ma lo scarto "nigger/black" dell'inglese si è imposto draconianamente come una legge anche nelle lingue romanze, persino là dove non aveva senso. In realtà ogni parola, anche la più innocua, può essere offensiva, se pronunciata offensivamente. La pretesa di cambiare le parole per cambiare la società può dar luogo a una pericolosa utopia, quella della lingua purificata e "perfetta" che rende l'uomo migliore».

     

    ACCADEMIA DELLA CRUSCA ACCADEMIA DELLA CRUSCA

    Abbiamo rischiato di perdere anche il termine Natale.

    «Sì, ma poi la Commissione europea ha ritirato quei suggerimenti, contro i quali si è pronunciato ormai persino il Papa. Credo che in futuro si procederà con più cautela». È a favore di esami di maturità solo in forma orale, senza scritti? Perché?«Anche in questo caso non posso far altro che riferirmi a una posizione ufficiale presa dalla Crusca: la dimensione scritta della lingua è assolutamente necessaria, e per di più è quella in cui gli studenti mostrano più difficoltà. Per questo l'esame scritto è insostituibile».

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