Michele Smargiassi per “il Venerdì di Repubblica”
robert mapplethorpe
Dal paradiso dei libertini, dove si è trasferito da trent’anni ormai tondi, possiamo stare certi che Robert Mapplethorpe se la ride. Ride di noi. Dice «Ragazzi è incredibile, ci cascano ancora!». Legge le recensioni delle sue mostre, i saggi critici degli studiosi che si sdilinquiscono sulla sua classicità, sulla sua «evocazione di archetipi e stilemi della storia dell’arte», sulla «perfetta scala di grigi» delle sue stampe firmate (però mica le stampava lui, le sue foto...).
E ride, ride finalmente contento e sereno, perché diciamo, negli ultimi anni della sua vita, segnati dalla rovina del suo corpo poco più che quarantenne massacrato dall’Aids, non ebbe molto da ridere.
Ma adesso sì, è passato tanto tempo, il dolore non c’è più, e sulla terra è rimasta l’impronta purificata di un Grande Fotografo, di un Venerato Maestro, di cui si può solo parlare bene, di lui che magari se lo merita pure, ma anche delle sue fotografie che invece richiedono un certo
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sforzo, mica è facile sublimare in bellezza ideale una penetrazione anale, per quanto magnificamente stampata su carta al platino, incorniciata e venduta a cifre di tutto rispetto.
Anche nella grande retrospettiva che ora gli dedica il Museo Madre di Napoli, l’entusiasmo per l’artista e il suo «desiderio di armonia ed equilibrio, di composizione e controllo formali, di quella ricerca che l’artista stesso definì di ordine e perfezione nella forma» non sono riusciti a evitare che la parte più esplicita del suo lavoro, il noto “Portfolio X”, sia esposto in una saletta a parte, probabilmente con avvertimenti a non fare entrare i bambini.
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Se la ride, da lassù (o da laggiù? mah…), Mapplethorpe, perché sa benissimo che è stata una fatica tutta nostra, e accidenti che fatica, quella di redimere moralmente, nobilitare culturalmente, autorizzare esteticamente il suo lavoro. Lui non ci ha neppure provato. Non ha mai neppure fatto finta che le scene sadomaso, di leather sex con accessori, di scat (non mi chiederete di spiegarvi cosa significa, vero?) fossero simulate davanti al suo obiettivo a beneficio dell’arte.
Mapplethorpe non ha fotografato metafore. Ha fotografato la vita attorno a lui. Poi ce l’ha venduta. E noi eterosessuali bianchi di idee progressiste e tolleranti abbiamo fatto di tutto per convincerci che fosse un’altra cosa. Senza renderci conto che il vero prodotto della breve vita di Mapplethorpe, forse l’unico sforzo impegnativo e consapevole della sua carriera d’artista, è stato proprio questo: non produrre opere d’arte, ma produrre noi, il suo pubblico.
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Nel senso che lui ha saputo convincerci a difendere a spada tratta dalle persecuzioni dei suoi numerosi accaniti censori ciò che lui in realtà non era e non voleva essere, ovvero un artista-esteta ribelle, un provocatore che utilizza i pantaloni di pelle aperti sulle natiche come astratti simboli, i membri eretti come metonimie di pistilli di fiori (e viceversa), i frustini sadomaso come purificate sublimazioni, per rompere i tabù, proclamare il diritto alla libertà sessuale, protestare contro le discriminazioni e l’omofobia eccetera eccetera.
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Proprio per nulla. Mai stato un militante dei diritti civili. «Per me la pornografia è una sessualità più interessante» confessò candidamente a Germano Celant. Qualcuno ci ha mai riferito davvero
quali fossero le sue opinioni etico-politiche sulla sessualità? Uno dei suoi vedovi più inconsolabili, Jack Fritscher (editore, scrittore, protagonista della scena gay americana degli anni Settanta) in una biografia senza veli sostiene il contrario: che tra le sue opinioni e quelle del suo acerrimo nemico, il reazionario senatore repubblicano Helms, il più accanito dei suoi molti censori, non ci fosse poi una distanza così abissale.
«Non era uno spirito libero né un libero pensatore. A dire la verità, Robert era un criptorepubblicano intollerante, per cui le donne, i neri e i gay dovevano starsene al loro posto». Semplicemente, a un certo punto della sua vita, una Polaroid ricevuta in regalo dall’amica Sandy Daley gli aveva aperto la mente come un fulmine: tutta quella robina porno che comprava nei sex shop di Manhattan per farci improbabili collage avrebbe potuto fabbricarsela da solo. E magari, addirittura, venderla.
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Gli andò bene, anche per una serie di incontri fortunati. La sua musa, Patti Smith, che sui letti sfatti della stanza 1017 del Chelsea Hotel gli insegnò quel tanto di poesia underground che serviva. Un critico e collezionista colto, Sam Wagstaff, che fu anche
il più intenso e duraturo dei suoi amori, che gli aprì le porte della scena artistica newyorkese.
«Robert scoprì» infierisce Fritscher «che la macchina fotografica era un facile strumento di potere nell’incestuoso mondo di arte, riviste e moda, fatto di baci al vento e leccate di culo». Stilisticamente, Mapplethorpe è un conservatore. Perfino un uomo d’ordine. Il formato quadrato della sua Hasselblad gli ha permesso di adagiarsi sulla composizione centrale e frontale, spesso simmetrica, senza affrontare mai alcuna esplorazione men che ortodossa della composizione. Per questo le sue immagini somigliano a sculture classiche.
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La sua lingua visuale è nitida, ben a fuoco, calligrafica, pittorialista. È evidente che, per lui, il soggetto è tutto. La fotografia è un mezzo, l’evento del fotografare è il fine, sia quando è statico come uno dei suoi ritratti (forse la parte migliore del suo lavoro) sia quando è dinamico come le sue scene di sesso anche estremo.
Ecco, qui forse il Madre coglie nel segno: la fotografia di Mapplethorpe è performativa, è sempre il prodotto di una interazione mobile, di un atto non meditato ma praticato; la mostra di Napoli sarà quindi accompagnata da performance teatrali ispirate al suo lavoro (un po’ imbarazzante immaginare come).
robert mapplethorpe hooded man
Forse occorrerebbe abbandonare il nostro ruolo, quello che lui sapientemente ci ha imposto. Il ruolo di eterosessuali bianchi progressisti che si sforzano di perdonargli ogni presunta “trasgressione” o “provocazione”, e non chiedersi se i suoi scultorei maschi neri reclutati all’Eagle o allo Spike siano un oggetto del desiderio con qualche implicazione razziale, a non domandarci come avrebbe reagito la nostra sensibilità politically correct se i soggetti di certe sue foto estreme fossero state donne.
robert mapplethorpe antinoo
Forse occorre cambiare i posti a tavola. Spodestare Mapplethorpe dal trono di guru, di artista sublime, e restituirgli quello di attore, di insider (diceva lui stesso), di performer senza copione della propria vita e della propria epoca, che erano poi gli anni Settanta della spensierata
estate dei desideri su cui già incombeva la catastrofe, la fine dell’innocenza, quando l’Aids fece irruzione come un fuoco vendicatore dal cielo invocato dai puritani per punire la nuova Sodoma.
L’autoritratto del 1988, pochi mesi prima della morte, drammatico, quel volto già scavato che raddoppia un dettaglio fin troppo esplicito, troppo smaccato, il bastone col pomello a teschio che ci sbatte quasi in faccia: quell’autoritratto è la nemesi di quell’altro del ’75 che era riuscito a sedurre Roland Barthes, in una celebre pagina di La camera chiara, quando la stessa mano che reggerà quel bastone del destino era ancora semidischiusa in un gesto di «erotismo allegro e lieve», di invito, di leggerezza, di desiderio di vita al di là di ogni arte, di ogni politica, di ogni morale.