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    IL CLINT DEI GIUSTI – TUTTA LA LUNGA CARRIERA DI CLINT EASTWOOD, ARRIVATO ORMAI ALLA SOGLIA DEI 90 ANNI, È IN FONDO RACCHIUSA IN UNA FRASE, CHE CHIARISCE, O FORSE COMPLICA LA DURA GUERRA FRA CHI HA DAVVERO IL POTERE SULLE IMMAGINI. IL REGISTA O L’ATTORE? “MI PIACEVANO I FILM DI HOWARD HAWKS, MA PER ME ERANO FILM DI JOHN WAYNE” – IL ‘LOOK AND SOUND’ DI SERGIO LEONE E UNA CARRIERA PASSATA A SPERIMENTARE E A SPIAZZARE, COME NELL’ULTIMO FILM, “RICHARD JEWELL” – VIDEO


     
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    Clint Eastwood fa 90

    Marco Giusti per Dagospia

     

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    “Quando ero bambino”, ha dichiarato Clint Eastwood, “non pensavo a chi fosse il regista di un film. Howard Hawks, ad esempio. Mi piacevano i film di Howard Hawks, ma per me erano film di John Wayne”. Tutta la lunga carriera di Clint Eastwood, arrivato ormai alla soglia dei 90 anni, essendo nato il 31 maggio del 1930, è in fondo racchiusa in questa frase, che chiarisce, o forse complica, la dura guerra, totalmente cinematografica e totalmente legata a quella precisa visione da spettatore, fra chi ha davvero il potere sulle immagini. Il regista o l’attore?

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    Per tanti anni, Clint Eastwood ha dovuto rispondere alle domande stucchevoli su chi ha inventato il poncho, il sigaro, la barba mal fatta, il cappello dello Straniero in “Per un pugno di dollari”?  Lui o Sergio Leone? E, soprattutto, su chi ha inventato quel personaggio. Un personaggio che sarà da subito, dalla prima volta che lo vediamo apparire sullo schermo, Clint Eastwood. Cioè lo Straniero senza nome.

     

    per un pugno di dollari per un pugno di dollari

    Come se la sua forza fosse proprio nell’idea dello Straniero (come in certe ballate folk e blues) e del senza nome, curioso in un film dove tutti i nomi sui titoli, salvo il suo, sono finti. Ora. Pensiamo solo all’effetto che ci fece, da ragazzini, lo Straniero che arriva dal nulla sul mulo, sotto all’albero con la corda penzolante, accompagnato dalla musica di Ennio Morricone, quella musica meravigliosa che ci tormenterà fino ad oggi, e che poi entra nel villaggio messicano incontrando subito un morto a cavallo. 

     

     

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    E pensiamo allo Straniero in primissimo piano, sotto il sole a picco di mezzogiorno, perché solo così, sotto al cappello, non c’erano ombre che gli potessero coprire gli occhi, costretti a chiudersi un po’ per mostrare le rughe sopra gli zigomi. Beh, noi volevamo essere tutti Clint Eastwood, eravamo Clint Eastwood. Leone e il suo direttore della fotografia, Massimo Dallamano, inquadrano il primissimo piano del suo volto come fosse il particolare di un ritratto cinquecentesco come hanno appena scoperto nelle prime raccolte sui pittori italiani dei Fratelli Fabbri.

     

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    Ma quel volto è di Clint Eastwood, un giovane attore che non parla italiano, come Leone non parla inglese, che preferisce tagliarsi le battute per non sbagliare, e che verrà doppiato in italiano, benissimo, da Enrico Maria Salerno, che ne ripete (o si inventa su consiglio di Leone) una parlata ironica, bassa e lentissima (forse perché Clint non capisce bene quel che deve dire…). Un giovane attore che non sa bene perché è lì e a fare cosa. Non ama particolarmente né il western né questo film.

     

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    All’amico americano Robert Woods, vero cowboy, che lo incontra in Spagna mentre gira un altro western, gli spiega i dubbi che ha su queste operazioni e sul fatto che non gli piacciano né il sigaro né il poncho. Eppure, quando dovrà doppiare il film in inglese, sotto la direzione di Mickey Knox, ripeterà quel modo di parlare di Salerno, e lo ripeterà anche nel film successivo, al punto che diventerà per sempre il suo. E quando il film diventerà un clamoroso successo internazionale, finalmente capirà che da allora in poi è diventato davvero Clint Eastwood. Ma in un film di Clint Eastwood o di un oscuro regista italiano che si chiama Sergio Leone?

     

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    Intelligentissimo, più colto di quel che si possa pensare, a Sir Christopher Frayling, biografo di Leone, che lo intervista nel 1985, cioè dopo i suoi primi grandi western da regista, Clint spiega in poche parole cosa sia stata per lui la rivoluzione di Leone e degli western italiani. “The Look and the Sound”. Pensa che le storie dei nostri film western non sono belle e complesse come quelle dei western americani, ma quanto a look and sound, siamo imbattibili. In fondo, conclude, “Non c’è mai niente di nuovo sotto il sole, è solo una questione di stile”.

     

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    E lo stile di Leone, lo ammette, era imbattibile, per non parlare del sound di Ennio Morricone, che si porta dietro in “Two Mules for Sister Sara”/”Gli avvoltoi hanno fame”, diretto da Don Siegel nel 1970. Ma il film non funziona bene come quelli di Leone. Non perché Siegel non sia un grande regista, anzi, sarà proprio l’unico, assieme a Leone, che costruirà, grazie alla serie di Dirty Harry, più noto da noi come Ispettore Callaghan, la grande carriera di Clint e il suo nuovo personaggio “moderno”, ma non riesce a dare a quel film il “look” di Leone. Anche se Clint si porta un vestito, un cappello, un sigaro che sono proprio simili a quelli dello Straniero.

     

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    E si porta anche Morricone, che gli cuce, a pennello, una musica clamorosa. Clint, che ha ormai finito di girare la grande Trilogia del Dollaro di Leone, che si è permesso pure una partecipazione alla Clark Kent nel buffo episodio diretto da Vittorio De Sica in “Le streghe”, non ha tempo da perdere. Vuole da subito arrivare al potere sulle immagini, sul “look and sound” che invidia a Leone e a Morricone.

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    Tutta la sua carriera, 41 film da regista, 71 da attore, quasi tutti protagonista, 4 Oscar, premi in tutto il mondo, non gli basteranno. Anche nei suoi ultimi film, penso a “Il corriere”, dove a 88 anni non solo è protagonista in un ruolo da duro, ma guida la propria macchina carica di droga avanti e indietro dal confine messicano, sembra puntare al controllo totale della propria immagine per farci dire “Ecco, questo è un film di Clint Eastwood!”.

     

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    Non ha fatto solo grandi film, lo sa bene. E non ha un buon carattere. Di fronte a registi esperti e importanti, come John Sturges in “Joe Kidd”, nel 1972, e Philip Kaufman in “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, dirà la sua su tutto fino a rendere impossibile ogni collaborazione. Sturges abbozzerà, Kaufman gli lascerà il film. Si trova più a suo agio con Don Siegel, che rispetta profondamente, e dove si reinventa film dopo film, “L’uomo dalla cravatta di cuoio”, “ La notte brava del soldato Jonathan”, fino alla costruzione del Dirty Harry protagonista di “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo”.

     

     

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    O con registi che riesce a controllare, come Ted Post, che lo dirige nel suo primo western americano dopo Leone, “Impiccalo più in alto”, o Brian G. Hutton, ex-attore, che lo dirigerà in due war movie di gran divertimento, “Dove osano le aquile” e “I guerrieri”, che ritroviamo citati in “Unglorious Bastards” di Tarantino. O che, forse, serviranno a Clint per spiccare il volo verso il cinema che davvero gli interessa. “Più personale, con più storie reali”, spiega a Frayling.

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    Mentre Leone, ai suoi occhi, sembra sognare solo macchine produttive che ne esaltino le capacità da regista. Se vediamo dall’alto tutto il lungo percorso da cineasta di Clint Eastwood, appare chiarissimo il suo progetto autoriale. Da una parte scappare dalla trappola del cinema facile del tempo, le coproduzioni europee, i filmetti televisivi anni ’60, dove nascono e muoiono i tanti attori alla Tab Hunter o alla Mark Damon che circolavano allora in italia e che cita proprio Tarantino in “C’era una volta a… Hollywood”. Da un’altra sviluppare una sua strategia per arrivare appunto a soggetti e a temi più personali e più realistici.

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    E per far questo gli serve come mentore un Don Siegel piuttosto che un John Sturges. Tenendo presente, da americano convinto, che “western e jazz sono le due sole forme d’arte che si siano prodotte in America”. Così, quando vuole farci vedere qualcosa di personale, di suo, che ha forti radici nel suo sentirsi americano, torna al western, con risultati clamorosi se si pensa a “Lo straniero senza nome”, “Il cavaliere pallido”, “Gli spietati”, un film da 4 Oscar, o si butta sul jazz,  come ha fatto nel 1971 col suo primo film, “Play Misty For Me”/”Brivido nella notte”, o come farà con uno dei suoi capolavori, “Bird”, la biografia di Charlie Parker che girò nel 1988 lanciando Forrest Whitaker protagonista. Western e Jazz, con tutte le loro variazioni, tanti suoi film di guerra, come “Gunny” o “American Sniper” hanno molti elementi western, mentre “Honkytonk Man” il progetto di “A Star Is Born” realizzato poi da Bradley Cooper civettano col musical, diventano così i suoi pilastri. Il punto da dove ripartire, penso a “Il cavaliere pallido”, o da mostrare come sua massima arte cinematografica, penso a “Gli spietati”, forse il suo più bel film in assoluto.

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    Forte di questi pilastri, Clint può permettersi commedie sentimentali, “I ponti di Madison County”, rapporti padre-figlio o padre-figlia, penso al bellissimo “Million Dollar Baby”, racconti storici, grandi affreschi su temi importanti, “J. Edgar”, la doppietta meravigliosa “Flags of Our Father” e “Letters From Iwo Jima”, pronto però sempre a sperimentare, a spiazzarti, come nell’ultimo film, “Richard Jewell”, del tutto inatteso e a tratti sorprendente.

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    Sempre, però, tenendo fede sia a una scelta di temi sempre e comunque profondamente americani, un raro tradimento è il film a episodi “Hereafter”, sia a un suo chiusissimo codice dove al regista non è mai concesso più di quello che si può concedere alla star, cioè spesso a se stesso. Perché il film, per il pubblico, è di John Wayne e non di Howard Hawks. Ma sapendo benissimo che se non ci fossero stato un Sergio Leone e  un Ennio Morricone a mettere in scena il look e il sound giusto dei suoi primi piani in “Per un pugno di dollari”, probabilmente, non sarebbe mai arrivato dove è arrivato.

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