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    "MI PIACE DIRIGERE PERCHÉ COSÌ EVITO DI GUARDARE LA MIA FACCIA SULLO SCHERMO" - CLINT EASTWOOD PARLA DEL SUO 40ESIMO FILM DA REGISTA 'RICHARD JEWELL' - A 89 ANNI LA MAGGIOR PARTE DEI MIEI COETANEI SI ACCONTENTA DI GIOCARE A GOLF. IO INVECCE… - LAVORARE CON SERGIO LEONE E VITTORIO DE SICA MI È SERVITO PER IMPARARE A FARE IL REGISTA. MA SE FOSSI RIMASTO IN ITALIA E AVESSI FATTO SOLO FILM WESTERN MI AVREBBERO DIMENTICATO..." - VIDEO


     
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    Roberto Croci per il Venerdì- la Repubblica

     

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    Il 27 luglio 1996, nel corso di un turno di perlustrazione durante le Olimpiadi di Atlanta, la guardia giurata Richard Jewell scopre uno zaino sospetto contenente un congegno esplosivo.

    La sua prontezza di riflessi riesce a evitare un massacro e viene immediatamente mostrato in tv come un eroe nazionale.

    Tre giorni dopo però, nonostante la mancanza di prove, diventa il sospettato numero uno del mancato attentato, accusato di terrorismo da Fbi e media americani. Dopo 88 giorni di inferno mediatico e interrogazioni martellanti, Jewell viene assolto da ogni accusa, ma reputazione e salute rimarranno per sempre segnate fino alla sua morte, avvenuta nel 2007.

    Il film Richard Jewell, nelle sale italiane dal 16 gennaio, è diretto da Clint Eastwood (alla 40ª pellicola dietro la macchina da presa), ed è basato su un articolo di Marie Brenner pubblicato su Vanity Fair nel 1997. Nel cast un bravissimo Paul Walter Hauser, Kathy Bates, Sam Rockwell, Jon Hamm e Olivia Wilde.

     

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    Ecco un altro eroe, un uomo accusato ingiustamente, additato come colpevole ancora prima di aver potuto provare la propria innocenza. Mr. Eastwood perché a 89 anni ha voluto girare questo film? «Per me era una storia importante da raccontare perché Richard è una persona con cui tutti possiamo identificarci. È un uomo comune che si guadagnava la vita onestamente, studiando per diventare poliziotto e per essere membro produttivo della società. Aveva pregi e certamenti difetti, ma non certo peggiori di quelli della maggior parte di noi.

     

    Erano anni che volevo fare questo film, ma per vari motivi non c' ero finora mai riuscito. Alla fine è stato meglio così: fino a quattro anni fa questo film non avrebbe avuto la stessa rilevanza di oggi. Ciò che sta succedendo nella nostra società lo rende un soggetto molto attuale».

     

    Perché era importante rendere giustizia a Jewell?

    «Ho sentito come un mio dovere morale raccontare la verità, perché sua mamma Bobi e i suoi amici meritavano giustizia. Richard viveva una vita tranquilla, finché in un secondo diventa una star, amata da tutti. Poi, con la stessa forza, improvvisamente, la sua vita diventa un inferno, gli viene portato via tutto, non solo il lavoro e il diritto a una vita normale, ma anche la dignità.

     

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    Viene abusato, deriso perché vive con la madre, con cui aveva un rapporto di amicizia stupendo. Chiunque farebbe il tifo per lui, non solo per l' aspetto tragico della situazione, ma anche per quello umano».

     

    Oggi siamo subissati di fake news. Quello che è successo a Richard potrebbe essere considerata la "prova generale" in un' epoca in cui internet non era così pervasivo?

    «Certo, è una storia pertinente come lo era 23 anni fa, soprattutto per le ingiustizie che ha dovuto subire. Curioso come un giorno sei in cima al mondo e qualche ora dopo tocchi il fondo. Oggi sarebbe molto più facile costruirla: racconti una piccola storia che nel giro di qualche ora, grazie ai social media, diventa virale, fino a esplodere. Richard fu ritenuto colpevole ancora prima di aver esaminato i fatti. Il venir accusato ingiustamente è sempre l' inizio di una storia drammatica».

     

    Perché per il ruolo principale ha scelto Paul Walter Hauser?

    «Avevo visto I, Tonya, con Margot Robbie e mi era piaciuto molto. Mi ricordavo di Paul, anche se non avevo fatto caso alla sua incredibile somiglianza con Jewell. La prima volta che l' ho visto di persona rimasi sconvolto, avrebbe potuto essere suo fratello. Paul è nato per interpretare questo ruolo, anche la mamma di Richard quando lo ha incontrato è rimasta scioccata. Dopo aver trovato Paul abbiamo cercato il resto del cast, è stato un processo molto veloce, nel giro di qualche settimana abbiamo iniziato a girare».

     

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    Il suo ultimo ruolo come attore in The Mule è del 2018. Recitare le interessa ancora?

    «A 89 anni sono arrivato al punto che posso scegliere solo i ruoli che mi piacciono davvero! Come regista posso raccontare le storie che voglio, come attore devo aspettare il ruolo giusto, alla mia età purtroppo non ci sono molte parti interessanti e non ci sono molti sceneggiatori disposti a scrivere copioni per un anziano come me. A spingermi a recitare, forse, è anche la speranza di interpretare il ruolo che mi porterà a prendere l' Oscar come migliore attore! (Eastwood ne ha vinti già quattro nella categoria regia e miglior film, ndr.). Ogni ruolo è l' occasione per puntare il dito su un soggetto importante. Quando ero giovane c' erano molti registi disposti a rischiare, oggi mi reputo fortunato quando posso raccontare come è avvenuto in Gran Torino, una storia vera con dei valori solidi».

     

    Dirigere non le pesa?

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    «Mi hanno fatto spesso questa domanda negli ultimi 20 anni. Forse perché alla mia età la maggior parte della gente si accontenta di giocare a golf. Non fraintendermi, sono un appassionato di golf e gioco ancora bene. Però spesso mi chiedono perché non vado in pensione. Sono una persona curiosa, lo sono sempre stata, mi piace scoprire cose nuove, espandere gli orizzonti.

     

    Credo che il segreto della mia longevità sia proprio questo, e lo raccomando a tutti: non fermatevi, non accontentatevi, cercate sempre nuovi stimoli, perché sono quelli che danno la possibilità di rimanere creativi e di continuare a esprimere se stessi. Mi piace dirigere perché così evito di guardare la mia faccia sullo schermo! Se fossi rimasto in Italia e avessi fatto solo film western non credo avrei avuto la stessa carriera, probabilmente mi avrebbero dimenticato dopo qualche anno. Essere attore è un lavoro in cui devi concentrati sui particolari. Come regista devi invece essere capace di coordinare tutti questi dettagli e creare la tua visione di insieme».

     

    A proposito della sua esperienza italiana. Come la ricorda?

    «Incredibile, quando ci ripenso mi commuovo. Dopo il mio primo ruolo importante nella serie tv Gli uomini della prateria del 1959, sono partito per l' Italia a lavorare con Sergio Leone, di cui ho dei bellissimi ricordi e che ringrazierò sempre per aver cambiato il corso della mia carriera con film importanti. Ho lavorato anche con Vittorio De Sica, un regista che mi ha permesso di imparare a guardare le cose da diversi punti di vista, tutte esperienze che mi sono servite quando ho iniziato a dirigere».

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    Quando pensa alla sua eredità di filmmaker come la vede? «Non ho idea! (lo dice in perfetto italiano, ndr.). Non sta a me decidere se qualcuno continuerà ad apprezzare il mio lavoro o se tra 30 anni i miei film saranno ancora rilevanti. Vivo un giorno alla volta, cercando di fare il mio meglio. È sempre più difficile trovare materiale interessante da adattare allo schermo, ma quando trovo qualcosa allora mi impegno al massimo per raccontare una storia che possa lasciare un segno, che abbia un messaggio, anche minimo, anche solo per provocare una discussione. In questo mestiere bisogna avere molta pazienza».

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    Il miglior consiglio che abbia mai ricevuto?

    «È stato di Don Siegel, che mi ha diretto in tanti film tra cui l' Ispettore Callaghan, La notte brava del soldato Jonathan e Fuga da Alcatraz. Era sul set mentre giravo Brivido nella notte, il mio primo film da regista. Mi ha detto di non pensare solo al bene degli attori ma anche al mio. "Divertiti, se tu stai bene, tutti saranno felici". Aveva ragione, ed è un consiglio che uso ancora ogni giorno».

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