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    CODICE MENDINI - “OGGI IL DESIGN INDUSTRIALE È QUELLO DI APPLE. SOLO NELL’ARTIGIANATO SI CREA L'OPERA D’ARTE - LA CULTURA È CIRCOLARE: NON VA AVANTI SU UN'UNICA STRADA MA GIRA ATTORNO ALLE INCERTEZZE”


     
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    Cloe Piccoli per “la Repubblica”

     

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    Se ne sta seduto al suo tavolo fra libri, disegni, quadri, ceramiche e matite colorate in cima al soppalco del suo atelier, un intrico di scale, balconcini e scalette tra Blade Runner e Piranesi, a due passi da Porta Romana. Appoggiato a un cassettone del Settecento c' è un suo ritratto firmato da Mimmo Paladino. E poi ancora altri disegni, e lampade, incluse le ultime, quelle che ha progettato per un giovane imprenditore coreano. Blu, rosse e gialle sembrano luminose orbite planetarie.

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    Al piano di sotto c' è il suo laboratorio, simile a quello di un artigiano. Perché Alessandro Mendini, uno degli uomini che hanno inventato la cultura del design contemporaneo, due volte vincitore del Compasso d' oro, creatore di oggetti cult (è lui quello del cavatappi Anna G. di Alessi, 1994) e di vere e proprie icone del Postmoderno (dalla poltrona Proust, 1976, al Groninger Museum, 1984) pur continuando a lavorare per grandi aziende (prima Alessi, ora Samsung e Swatch) a ottantaquattro anni è proprio nell' artigianato che vede nuove potenzialità per il design.

     

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    Occhiali rotondi, giacca tirolese, pantaloni di velluto a coste, spiega l' apparente paradosso: «Oggi il design industriale è quello di Apple, di Samsung e delle automobili. Quanto al design del mobile, se consideriamo che le aziende storiche sono ormai degli editori di pezzi in tiratura limitata, a livello industriale resta Ikea che però, partita con un concetto interessante, da tempo non ha un alto livello progettuale.

     

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    Poi ci sono i makers, una sorta di controcultura contemporanea che progetta e produce con alta tecnologia virtuale. E infine c' è l' artigianato, forse l' ambito più interessante e difficile da definire, perché è qui che si crea il pezzo unico, l' opera d' arte, o comunque il pezzo che è borderline con l' arte. E questo è quello che faccio io. Le dico di più: forse è proprio dalla grande tradizione artigianale, e dai suoi valori antropologici, che si dovrà ripartire».

     

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    La storia del design Mendini inizia a scriverla nell' anno 1968, studio di Marcello Nizzoli, via Rossini 3, a Porta Venezia, Milano. «Quello era un momento molto particolare, c' era tutto un sistema di contestazioni, da quelle studentesche a quelle sociali, che in qualche modo si opponevano al consumismo, a quello che allora si chiamava il bel design. E in questa direzione si andava formando un movimento, non solo in Italia, intendiamoci, ma dall' Austria e fino a Los Angeles.

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    Fu in quel periodo e in quel contesto che mi chiesero di dirigere Casabella e fu lì che cominciai a incontrare le persone che poi hanno formato il cosiddetto Design Radicale. C' erano quelli di Archizoom: Andrea Branzi, Paolo Deganello, Massimo Morozzi e altri ancora. C' erano Ettore Sottsass, Riccardo Dalisi, Gianni Pettena. A Londra il gruppo degli Archigram, e poi anche Cedric Price, Buckminster Fuller. Ma mica solo architetti e designer, c' erano anche gli artisti Paolo Scheggi, Getulio Alviani...».

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    Al piano di sotto il telefono squilla, sale Beatrice che lavora con lui da anni, c' è un' immagine da inviare al volo a Domus che festeggia il numero mille. Mendini dà le indicazioni del caso e poi continua sul filo di una vita che dalle riviste di architettura è stata scandita: dopo la direzione di Casabella, la direzione di Modo e poi, dal '79, proprio quella di Domus:

     

    «Diciamo che Casabella è stato il periodo del Contro Design, Modo, che era una rivistina piccola, è stato il periodo della Trasversalità, e Domus sicuramente il Postmoderno» sintetizza Mendini con la lucidità e la naturalezza di chi quei concetti e quei movimenti li ha sostanzialmente inventati.

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    In questi giorni l' architetto e designer ha ben due libri in uscita, per Electa un Codice Mendini e per Publimedia Scritti di domenica - «è l' unico giorno in cui mi capita di stare in studio da solo e allora posso scrivere». Per raccontarsi parte dall' idea del Postmodernismo, di cui è uno dei protagonisti più interessanti.

     

    «Non credo di avere uno stile, semmai un sistema di stili sfuggenti, che continuano a scappare. Sono curioso delle trasformazioni dei metodi di vita, delle arti, dei cambiamenti delle mentalità, inseguo sempre la logica della trasformazione che coniuga elementi nuovi e altri che appartengono ad altre epoche».

     

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    Ha un' empatia speciale, che ti mette subito a tuo agio, la stessa che si percepisce nei suoi oggetti e progetti. «È proprio questo il Postmodernismo, è il riconoscimento che la cultura è circolare o, meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse. Non ha il senso moderno dell' andare avanti su un' unica strada giusta e implacabile, ma gira attorno alle incertezze».

     

    È la stessa cultura circolare che Mendini distilla in questo suo laboratorio parlandoci di grandi utopie, di estetica, e poi di nuovi progetti, di amici, e naturalmente di designer e di architetti. Li ha conosciuti tutti, e tutti li ha invitati in una bella mostra che fece qualche anno fa al Triennale Design Museum.

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    Si intitolava Quali cose siamo. Già, quali cose siamo? Il design come identità: «Nel '68 il design era un grande progetto politico. Era l' utopia del socialismo alla francese, con l' idea del falansterio, le grandi architetture comuni che avrebbero unito vita e produzione, la fabbrica perfetta. Su questo versante c' erano Paolo Deganello, Aldo Rossi, c' era Enzo Mari che sosteneva, come tutti noi, la nobiltà del gesto, del lavoro, del fare. Ognuno, poi, declinava l' utopia a suo modo. C'era il monocromo di Branzi e c' era l' India di Sottsass».

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    E intanto scorrevano gli anni Settanta con Archizoom, Superstudio, Archigram: «Quelli di Archigram assomigliavano ai Beatles, e i Beatles riprendevano il Decò, anche nei vestiti. Erano strani ma tirati, i Beatles intendo dire, e infatti poi sono diventati Sir». Quindi gli anni Ottanta, quando Mendini fonda il gruppo Alchimia: «È il periodo dei colori e di un nuovo progetto, sempre radicale ma su un piano diverso. A quel punto non c' era più la destra e la sinistra, iniziò un lavoro di corrosione tragicomica, un po' da teatro dell' arte, un' occupazione dello spazio urbano in modo molto scenografico ma come fatto con piccole endovenose».

     

    E a proposito di spazio urbano, l' architetto milanese per l' estate prossima sta preparando una mostra in uno degli appartamenti della Unité d' habitation di Le Corbusier, a Marsiglia. «L' intero edificio venne progettato dal protagonista del Modernismo. Ma questo particolare appartamento, il numero 50, era quello abitato dalla maestra dell' asilo, che era amica di Le Corbusier che quando veniva a Marsiglia era sempre suo ospite. Dunque la casa è stata conservata in ogni dettaglio, e in più accuratamente restaurata.

     

    Ogni anno ospita una mostra, e quest' anno toccherà a me. Sto lavorando ad alcune ceramiche negli otto colori con cui l' architetto francese realizzò il suo progetto». Il colore per Mendini è sempre stato importante, è evidente guardando i suoi oggetti sgargianti e luminosi.

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    «L' ho assorbito in via Jan, a casa dei miei zii, Antonio Boschi, ingegnere e diciamo così anche mio maestro di violino, e Marieda Di Stefano. Avevano una straordinaria collezione di quadri che fu poi donata al Comune di Milano».

     

    È dal Cubismo, ma anche da Steiner e dai colori pastello, e poi dal Puntinismo francese, e dai dipinti di Georges Seurat conservati in quella casa oggi aperta al pubblico che Mendini arriverà più tardi alla famosa poltrona Proust, dipinta a mano e con minuscole pennellate.

     

    Ora però l' orologio multifunzione e multischermo che ha disegnato per Samsung lampeggia insistentemente sulle 15.49. «Mi segnala se oggi mi sono mosso poco oppure abbastanza. Può fare di tutto». Ride.

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