Alessia Candito per il Venerdì-la Repubblica
marisa merico
Outfit all’ultima moda, borse e occhialoni griffati, piglio da donne in carriera. E arroganza. Si presentano davanti ai giudici chiamati a decidere se spedirle dietro le sbarre, fresche di messa in piega e su tacco 12. Sono le professioniste di fiducia della ‘ndrangheta. Sono sempre più spregiudicate e per i clan sempre più necessarie. Se nell’immaginario collettivo la donna di ‘ndrangheta assomiglia ad una signora vestita di nero, magari anche baffuta, sempre sottomessa ai maschi di famiglia, nella realtà è invece tutt’altra cosa. Oggi mostrano un volto del tutto nuovo. Ma è solo un aspetto della loro trasformazione. «La donna ha sempre avuto un ruolo importante nella criminalità organizzata calabrese» dice il comandante della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Francesco Rattà.
«Sono sempre state loro a tessere i fili della vendetta, a innescare o comporre
conflitti anche sanguinosi, a crescere le nuove generazioni di affiliati. Oggi stanno solo rivendicando un ruolo fuori dalle mura domestiche».
La ‘ndrangheta non è una monade. I cambiamenti sociali toccano le corde
intime dell’organizzazione e spesso chi la governa è bravo a cavalcare l’onda, se
roberta tattini
non ad anticiparla. Mentre aziende, ordini professionali e pubblica amministrazione continuano a storcere il naso di fronte a donne in posizioni apicali, la ‘ndrangheta da tempo ha imparato a cercare commercialiste, avvocate, consulenti, esponenti delle istituzioni. Insomma, in linea con i tempi che cambiano. La filosofia è stare al passo, aggiornare le avanguardie della malavita. E poi chi potrebbe mai pensare che l’organizzazione criminale che più si è raccontata in termini
di machismo e tribalismo possa affidare proprio alle donne le vite e le fortune dei
propri affiliati?
aurora spano
Gli esempi ormai si contano a decine, perché anche nel mondo dei clan il ruolo
della donna è questione di classe e di rango. «Non facciamoci ingannare: le
signore della ‘ndrangheta, non sono la faccia presentabile del crimine organizzato» sottolinea il procuratore aggiunto giunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. «Spesso sono le menti nascoste di un sistema criminale di cui custodiscono i segreti ed alimentano i rancori. La loro parola condiziona le scelte che contano, dando vita a faide cruente e guerre infinite. Oggi assumono ruoli di comando, non limitandosi più ad occupare quelli di “supplenza”. Non è più consentito pensare di poter contrastare i fenomeni criminali di tipo mafioso, sempre più estesi e sofisticati, senza aver compreso che la forza delle mafie va ricercata nella capacità di rinnovare valori deviati, che proprio le donne contribuiscono a rendere forti e condivisi». Per molto tempo però la forza, il potere e l’influenza delle donne sono state sottovalutate.
Maria Serraino, divenuta negli anni Settanta la regina di piazza Prealpi e dello spaccio di cocaina ed eroina a Milano; sua nipote Marisa Merico, ex principessa del narcotraffico e del contrabbando di armi, boss di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria; Aurora Spanò, condannata a 23 anni come capo del suo clan; Ilenia Bellocco, che a forza di irripetibili bestemmie faceva rigar dritto gli affiliati. Sono sempre state considerate eccezioni alla regola.
Ma in realtà dentro e fuori dai clan, il pallino del potere mafioso, degli affari e delle strategie criminali è sempre più nelle mani delle donne. Ne era perfettamente consapevole quella che gli inquirenti considerano la “criminologa dei clan”, Angela Tibullo, arrestata nell’agosto scorso a Reggio Calabria, e dopo qualche mese confinata ai domiciliari.
angela tibullo
Per diventare la “regina della penitenziaria”, a soli 36 anni, non avrebbe esitato a corrompere medici e periti per strappare scarcerazioni per i suoi assistiti, confezionare insieme a loro referti ad hoc, trasformare agenti penitenziari in postini e informatori. In cambio, offriva serate in compagnia di escort o denaro. Molto denaro. «Per invogliarmi mi spiegò che l’ultimo perito che aveva ricompensato si era “fatto la Pasqua“ con quello che aveva ricevuto e, probabilmente, si era fatto pure l’estate» ha raccontato agli inquirenti uno dei professionisti che non si è piegato. Volto noto dei salotti televisivi locali e nazionali, di fronte alle telecamere, la Tibullo si mostrava come seria e posata professionista.
Quello che ha colpito gli investigatori durante le intercettazioni sono stati i toni e i modi. «Questa carta qua» diceva ad uno dei boss che grazie a lei sperava in una scarcerazione «costa diecimila euro». E con i loro familiari, tutti affiliati di alto rango, parlava da pari a pari, con l’arroganza di chi si sente indispensabile e con la familiarità della persona di fiducia. Stessa confidenza che ha sempre mostrato con il boss Matteo Alampi l’avvocata Giulia Dieni.
maria serraino
Un tempo legale di grido e gran frequentatrice di salotti e locali cittadini, poi travolta da un’inchiesta antimafia e finita nella polvere. I giudici l’hanno condannata in primo grado e in appello per aver permesso al boss, all’epoca detenuto, di mantenere il pieno controllo del suo clan, come delle aziende in teoria sequestrate. In cambio di soldi, gioielli, regali. In altre parole, sostengono i giudici, era diventata “la portavoce” di Alampi. Se uno degli affiliati veniva convocato dal legale, per tutti il significato era chiaro: «Ti vuole parlare Matteo...», spiega uno di loro intercettato. «Ma nella società» dice un investigatore «si stenta ancora a credere che una donna possa volutamente scegliere di ricoprire questo ruolo». Sarà per questo che l’avvocata Giulia Dieni continua a esercitare la professione? Non è dato sapere. Di certo, contro di lei, il suo Ordine non si è affrettato a prendere provvedimenti.
milano ndrangheta 1
Al contrario, ha fatto scadere i termini per decidere sulla sospensione cautelare dall’esercizio della professione senza arrivare ad un verdetto. L’avvocato incaricato di relazionare sul caso ha sostenuto di avere troppo poco tempo per esaminare i documenti e comunque di aver bisogno di carte ulteriori. La sezione distrettuale di disciplina forense si è limitata a prenderne atto. Risultato? L’avvocata Dieni, condannata per i rapporti ambigui con i propri clienti, ha continuato ad entrare e uscire da carcere per parlare con i detenuti, frequentare le aule giudiziarie, trattare con i parenti.
NDRANGHETA
Prima dell’arresto, era una professionista di grido anche Roberta Tattini. Figlia della buona borghesia bolognese, per anni è stata una consulente finanziaria molto nota in città. Poi, alla sua porta ha bussato il boss Nicolino Grande Aracri, «il capo di giù, di Cutro, il sanguinario» raccontava lusingata. «È gente che ha i segni delle pallottole addosso. Ieri mi sono sentita importante». Il patriarca le ha chiesto una mano per sistemare una serie di affari e lei non si è tirata indietro. Anzi, la considera una grande occasione. «Fulvio, mi sta dando un’opportunità! È un affare e guadagno un milione di euro» dice al marito, che tenta inutilmente di metterla in guardia.
NDRANGHETA IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA NDRANGHETA IN PROVINCIA DI COSENZA
Ma lei si sente tranquilla, nonostante sia consapevole dei rischi. «Siete uomini d’onore» la ascoltano dire gli investigatori. «Voglio il vostro migliore avvocato a difendermi, perché ho paura che con il mio sto dentro vent’anni. Invece voi mi tirate fuori». Aspettative infrante da una condanna definitiva a 8 anni e 8 mesi.
COCAINA NDRANGHETAjpg NDRANGHETA IN PROVINCIA DI VIBO VALENTIA ROBERTA TATTINI NDRANGHETA EMILIA 1 arresti ndrangheta emilia arresti ndrangheta emilia 2 ROBERTA TATTINI NDRANGHETA EMILIA 1 procura reggio calabria NDRANGHETA IN PROVINCIA DI CATANZARO