Stralci del libro di Geoff Dyer “Gli ultimi giorni di Federer” pubblicati da “Il fatto Quotidiano”
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Gli esperti hanno discusso dell’eventuale ritiro di Roger (Sì, “Roger”, non “Federer”; anche se non l’ho mai incontrato di persona per me lui è Roger, sempre e solo Roger) per più anni di quanti Borg ne abbia trascorsi nel Tour.
Le voci sul ritiro crebbero in volume e intensità dopo che nel 2013 Roger venne battuto al secondo turno di Wimbledon da Stachovs’kyj, numero 116 del ranking. Il perdurare del problema alla schiena, uno dei fattori di quella sconfitta, alimentò le speculazioni sulla futura durata della sua carriera. Tra il 2013 e il 2016 non vinse nemmeno uno Slam.
L’operazione al ginocchio del febbraio 2016 fu seguita da un nuovo infortunio in luglio e dal conseguente ritiro da tutte le competizioni per il resto dell’anno. Durante questo periodo Roger respinse qualsiasi domanda sul suo ritiro come se si stesse allenando. Non era solo il tennis, diceva. Gli piaceva anche essere nel Tour.
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Gli piacevano gli hotel di lusso, i viaggi (con aereo privato), l’adorazione. Gli piaceva invitare Dimitrov e Haas nella sua suite per cantare insieme. Gli piaceva andare in tante città diverse, benché, come la maggior parte dei giocatori, non riuscisse a vedere molto di queste città, in parte perché ovunque si presentasse scatenava sommosse amorose...
Dopo aver perso contro Nadal nella finale degli Australian Open del 2009, era in lacrime (“Dio, questa cosa mi uccide”), ma negli anni successivi venne a patti con lo schema ricorrente che lo vedeva navigare nelle acque calme dei primi turni prima di scontrarsi con la minaccia vorticosa della mano sinistra di Nadal o con il muro balcanico di Djokovic.
Quindi, anche quando ci sembrò che non avrebbe mai più vinto un altro Slam, eravamo contenti che continuasse a giocare, contenti che non si fosse adeguato all’ideale a somma zero di Borg: o numero uno o fallito, perché ci dava la possibilità di vederlo. Forse era impossibile battere Djokovic o Nadal, ma contro quasi tutti gli altri sembrava che stesse giocando il tennis più perfetto possibile. Era un’illusione in cui potevamo cullarci.
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Poi arrivò l’annus mirabilis, il 2017, quando subito dopo l’operazione al ginocchio vinse gli Australian Open, Indian Wells, Miami e Wimbledon. Non soltanto lo stavamo vedendo giocare; forse era giunto addirittura a un nuovo vertice.
Ora colpiva vincenti di rovescio all’altezza delle spalle, punto dopo punto. Il suo bottino di Slam fu di diciannove, seguito, nel 2018, dal ventesimo (a Wimbledon) e da un paio di esaltanti ritorni al posto numero uno del ranking mondiale. Ma il vero trionfo era al di là delle statistiche e dei calcoli.
Aveva dimostrato ancora una volta che il modo più efficace di giocare a tennis era anche il più bello, e viceversa. Estetica e vittoria potevano andare di pari passo, ma con il tramonto di Roger il regno della bellezza sta per scomparire. Uno dei motivi per cui amiamo guardare Roger è il modo in cui sembra muoversi in una dimensione del tempo diversa, più rilassata. La ragione è che dà meno tempo agli avversari fino a quando, alla fine, non hanno più tempo per fare niente.
Ottiene questo effetto stando vicino alla linea di fondo campo, prendendo la palla in anticipo e cercando di accorciare gli scambi. Mentre Roger riduce il tempo concesso ai suoi avversari per prepararsi prima che il suo servizio arrivi roteando, i lunghi secondi spesi ad aspettare che Rafa si contorca nel suo interminabile rituale pre-servizio rosicchiano gradualmente le riserve di concentrazione degli avversari. (Djokovic può risultare ancora più esasperante: è impossibile sapere quando smetterà di far rimbalzare la palla e si degnerà di colpirla). Più volte durante i loro incontri Roger si è lamentato con l’arbitro per il tempo che Rafa impiega a servire. C’è una sorta di partita in corso anche quando non succede niente, quando la palla non è in gioco: un sottile e invisibile tiro alla fune temporale...
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Ma cosa succede se ti manca un solo punto per diventare campione? Ci sarà mai un esempio più straziante di Roger che serve nella finale di Wimbledon 2019 a 8-7 nel quinto?
Due ace lo portano al 40-15. Nel punto successivo colpisce un dritto largo sulla linea di demarcazione destra. Sul 40-30 si presenta a rete con un approccio non perfetto e viene superato facilmente. Pari. Djoko vince i due punti successivi e si arriva all’8-8. L’incontro si protrae fino al tie-break del terzo set, il primo in assoluto a Wimbledon, ma da quel momento si intuisce che la possibilità di Roger è sfumata. Forse l’ha intuito anche lui... Avere di nuovo quei due punti di Wimbledon, aver fatto le cose in modo diverso, rimanere indietro invece di precipitarsi a rete sul 40-30…
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C’erano tante possibilità che quei due punti, quei due momenti, potessero andare diversamente, ma perché ciò accadesse anche tutto il resto, non solo in quella partita ma nella carriera e nella vita di Roger, sarebbe dovuto andare in modo diverso, compresa la possibilità di battere quel gran servitore di Roddick in quella che era diventata, secondo le parole dello stesso Roger, una gara di servizio nel quinto Slam. E forse anche negli altri diciannove.
Fu una perdita particolarmente pesante, perché quel punto, uno dei mille vinti e persi nel torneo, nel giro di un’ora si trasformò in due cifre più significative: venti e sedici, anziché ventuno e quindici, cioè il numero di Slam vinti rispettivamente da Roger e Djokovic.
Quel punto avrebbe potuto fare la differenza tra il suo record intatto per sempre e il sorpasso da parte di Djokovic e Nadal...
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Poi il Covid ha interrotto il ciclo e i tabelloni di Wimbledon, bloccati dal 2019 al 2021, sono rimasti lì a indicare l’equivalente wimbledoniano dell’ultima lettera del tempo scritto.
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