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Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera”
Ce l'hanno quasi fatta, ma non è detta l'ultima parola, visto che l'offensiva che ha portato le truppe russe e i ribelli di Donetsk dentro Mariupol è la quarta dal 2014. Occupata dagli indipendentisti all'inizio di giugno di quell'anno, poi liberata dalle forze ucraine, quindi sotto attacco nuovamente a fine agosto e ancora all'inizio del 2015. Assalti, bombardamenti, case e impianti industriali distrutti; il centro sul Mar d'Azov può essere definito certamente la città martire di questa guerra.
E dire che la popolazione è per oltre l'80% russofona, ha sempre votato compattamente per il partito filo-Mosca e per l'uomo di Putin Viktor Yanukovich che dovette fuggire dopo la rivolta pro-Europa del gennaio 2014. Ma da tempo gli abitanti di Mariupol hanno cambiato opinione sulla Russia, su Putin e sui ribelli della vicina Repubblica popolare indipendente di Donetsk. Come il signore incontrastato di questa regione, quel Rinat Akhmetov, oligarca e padrone della squadra di calcio dello Shakhtar Donetsk che controlla quello che resta dei due grandi stabilimenti siderurgici di Mariupol, l'Iljich e l'Azovstal.
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Anche lui era un fiero sostenitore del Partito delle regioni, quello che per anni ha rappresentato il gruppo compatto dei filorussi d'Ucraina. Lo stesso Putin avrebbe ammesso in un incontro con i responsabili di media russi che nel 2014 diede ordine di risparmiare Mariupol proprio per non dare un dispiacere ad Akhmetov. Ma in questi anni l'oligarca ha cambiato partito, come tanti di coloro che vedevano il Cremlino come punto di riferimento.
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La squadra di calcio spostata a Kiev una volta che Donetsk si è autodichiarata indipendente e lui sempre più vicino ai governi legittimi, prima Poroshenko e poi Zelensky. Mariupol è un centro importante, il secondo porto dell'Ucraina dopo Odessa e, soprattutto, l'ultimo ostacolo al ricongiungimento via terra della Crimea annessa dalla Russia nel 2014 ai territori occupati del Donbass. Per poter raggiungere direttamente la penisola, il signore del Cremlino ha fatto costruire dal suo amico Arkadij Rotenberg il ponte sullo stretto di Kerch costato quasi tre miliardi di euro.
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Presa Mariupol, tutta la costa è in mano russa, con il totale controllo del Mar d'Azov. Soprattutto sarebbe un trofeo che Vladimir Vladimirovich potrebbe esibire per testimoniare il successo dell'Operazione militare speciale. Sufficiente per dichiarare di aver raggiunto gli obiettivi fissati all'inizio e aprire vere trattative di pace senza più il timore di apparire sconfitto? In fin dei conti i territori delle due repubbliche autoproclamatesi indipendenti sono sotto il sicuro controllo di Mosca, la Crimea è ricongiunta alla madrepatria e l'Ucraina accetta di non entrare nella Nato.
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Risultati importanti ma che non sembrano decisivi per Putin. Il riconoscimento dell'annessione della Crimea e dell'indipendenza definitiva di Lugansk e Donetsk sono condizioni irrinunciabili per lui. Anche perché oramai ha concesso la cittadinanza russa a quattro milioni di persone che non può certo «restituire» all'Ucraina senza perdere la faccia. Ma anche per Zelensky in questo momento rinunciare a quei territori è politicamente impossibile. Quindi l'ipotesi più probabile è che le trattative non si avviino concretamente e che i combattimenti continuino.
carri armati russi a mariupol ucraina