donald trump xi jinping
Flavio Pompetti per www.ilmessaggero.it
Due evacuazioni quasi contemporanee, a 13.000 chilometri di distanza. Il pomeriggio di venerdì i diplomatici cinesi hanno abbandonato con una breve carovana di furgoni la sede consolare di Houston. Poche ore prima a Chengdu, la capitale dello Sichuan, i loro colleghi statunitensi avevano lasciato l'edificio murato che ospitava il consolato degli Stati Uniti, in uno scambio di scortesie che sottolinea il deterioramento progressivo dei rapporti tra i due paesi.
consolato cinese di houston, in texas
Lo sfratto di Houston ha avuto una coda polemica, quando pochi minuti dopo la scadenza delle ore 16 fissata per l'abbandono dei cinesi della sede, una squadra di ispettori statunitensi accompagnati da un fabbro sono stati visti rompere i sigilli di una porta secondaria ed entrare nell'edificio. La palazzina è proprietà del governo cinese, il quale ha invocato la violazione dell'articolo 27 della convenzione di Vienna, quello che garantisce l'inviolabilità delle sedi diplomatiche straniere. «La Cina risponderà nei modi più appropriati e necessari a questa violazione» promette una nota del ministero degli Esteri di Pechino.
IN DIFESA DELLE LIBERTÀ
I due paesi stanno oltrepassando in fretta i limiti della cordialità e del dialogo. Il discorso che Mike Pompeo ha pronunciato a Los Angeles, di ritorno dalla missione a Londra e a Copenaghen non lasciva dubbi a riguardo: «Il mondo intero si trova davanti all'imperativo di difendere dall'ingerenza del Partito comunista cinese le libertà conquistate - ha detto il segretario di Stato - e gli Usa sono pronti ad assumere la leadership in questa battaglia».
XI JINPING DONALD TRUMP
Nessun accenno più alla trattativa commerciale che tanti danni ha procurato al resto del mondo, nessun impegno per incontri bilaterali futuri. Il controspionaggio degli Stati Uniti è a caccia di spie cinesi sul suo territorio, per esibire le prove dell'attività clandestina ed ostile da parte dei cinesi che denuncia da anni. Venerdì un cittadino di Singapore ha ammesso davanti ad un giudice di Washington, di aver spiato negli Usa per conto dei cinesi negli ultimi quattro anni. Il 39enne Jun Wei Ye cinque anni fa era arrivato a Pechino da studente di scienze politiche, invitato a fare una relazione sulla regione sud asiatica.
consolato cinese a san francisco
Durante il suo soggiorno fu avvicinato da agenti cinesi che gli offrirono soldi e istruzioni per lavorare per loro conto. Dopo un periodo di formazione in Asia, Wei arrivò negli Stati Uniti con il compito di creare una società di consulenza fittizia e aprire pagine web e siti sociali, tramite i quali sollecitare rapporti da ex militari e specialisti universitari sulle materie più disparate: dallo scambio commerciale alla guerra dei dazi, all'intelligenza artificiale e gli studi scientifici.
Il logaritmo disegnato dai suoi istruttori cinesi era in grado, una volta acquisita una lista iniziale di inconsapevoli informatori, di moltiplicare i suggerimenti per nuovi contatti con altre, possibili fonti. Nel 2019 la caccia era diventata talmente feconda che Wei decise di trasferirsi negli Usa per partecipare a riunioni di tink tank, ed entrare in contatto con soggetti sempre meglio informati. L'Fbi lo ha arrestato lo scorso novembre all'ultimo ingresso da Singapore, e gli ha trovato addosso le prove di un reclutamento in atto di un funzionario del Pentagono.
mike pompeo
L'IMBARAZZO DELL'ALLEATO
La vicenda sembra una storia da guerra fredda, e in effetti lo è. In tempi normali sarebbe rimasta sotto il radar dei media e sarebbe entrata negli archivi del controspionaggio. Se è entrata sotto la luce dei riflettori, è perché questo livello di segretezza è ormai saltato nei rapporti tra Cina e Stati Uniti, anche al costo di esporre un alleato storico come Singapore, che sta reagendo con enorme imbarazzo alla divulgazione dello scandalo.