Estratto dell'articolo di Antonio Barillà per lastampa.it
ANTONIO CONTE
Il divorzio è consensuale, non sereno. Restano incomprensioni, fraintesi, parole dure. Antonio Conte è fatto così: dà l’anima, ma se un progetto non lo convince più l’interrompe. E spesso consuma lo strappo sommando frecciate pubbliche a confronti privati. L’epilogo del rapporto con il Tottenham è un dejavu, un concentrato di tensioni che né il comunicato asettico del club né il miele social del tecnico («Ringrazio profondamente tutti gli Spurs che hanno apprezzato e condiviso la mia passione e il mio intenso modo di vivere il calcio») cancellano.
D’altronde lui taccia i calciatori d’egoismo, rinfaccia vent’anni senza successi, le repliche non sono tenere e i tabloid ritraggono uno spogliatoio stufo, un feeling deteriorato, un ambiente «tossico». Il punto è capire che cosa ci sia dietro: la schiettezza dell’uomo, quindi una virtù, o un’allergia al compromesso che lo rende, alla lunga, inaffidabile? In fondo tende sempre a prendersela con società che lo pagano lautamente e così il confine tra libertà e irriconoscenza s’assottiglia, soffiando anche sul sospetto di un allenatore vincente che però, se le cose non girano, non esita a scaricare le responsabilità.
antonio conte
È così da sempre, Antonio da Lecce. La sua carriera è fitta di successi - nei campionati, in verità: le coppe europee restano un sortilegio -, di legami intensi, tattiche scaltre e motivazioni portate alle stelle, ma anche di lacerazioni, dita puntate e porte sbattute. La narrazione classica comincia dalla Juventus, dall’addio improvviso dopo tre stagioni felici, dalla battuta sul ristorante da 100 euro in cui con 10 non puoi sederti, dalla convinzione d’una squadra svuotata che invece, assegnata ad Allegri, si spinse fino alla finale di Champions, in realtà anche le precedenti esperienze sono un compendio di toni alti e rotture.
antonio conte
Ad Arezzo, dopo la retrocessione in C, si scaglia proprio contro la Juve sconfitta in casa dallo Spezia che guadagna così i play out («Rispetto per i tifosi, non per la squadra»), a Bari dopo la promozione in Serie A e il rinnovo si dimette ritenendo il progetto non all’altezza mentre Ventura, erede designato, s’arrampica al decimo posto, a Bergamo dura poco più di cento giorni litigando con Doni, il capitano, e con i tifosi, a Siena non c’è addio traumatico ma diventa cult la conferenza contro i «gufi che vogliono il male della squadra».
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Dopo la Juve, la Nazionale. Archiviato l’Europeo, Conte non rinnova il contratto e firma con il Chelsea. Rimarca la promessa non mantenuta di avere un ruolo più ampio e spiega di non voler stare «dentro un garage». A Londra non va meglio, contesta il mercato, dopo aver vinto la Premier chiude al quinto posto e viene esonerato: fa causa al club. Tappa successiva l’Inter, stesso copione: scudetto, lamentele su una campagna acquisti che non segue le sue direttive e su una società ritenuta debole. Anche al Tottenham è addio al secondo anno, se la prende con l’ambiente ma ignora i 170 milioni investiti e le ambizioni perdute, ultima la Champions interrotta davanti al Milan.
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