Emanuela Audisio per “la Repubblica”
PELE CON EMILIO GARRASTAZU MEDICI
Un re, di sicuro. Che dava la mano alla regina, che alla Casa Bianca costrinse Ronald Reagan a presentarsi: «Sono il presidente degli Stati Uniti, lei non ha bisogno di dire chi sia, visto che qui tutti la conoscono ». Ma anche l'orgoglio di un paese che prima del '58 non aveva vinto niente (zero Nobel) e che in pochi sapevano posizionare sulla mappa. Pelé è stato il Brasile e il Brasile è stato Pelé. Non ha inventato solo il calcio, ma un paese. Non c'è mai stata identificazione più forte. La sua maglia verdeoro è stata esposta al Moma di New York.
Quando Andy Warhol, quello che «nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti» se lo trovò davanti per un ritratto, cambiò idea, e disse «Pelé sarà famoso per 15 secoli». Se La ragazza di Ipanema di Jobim ('62) fa conoscere al mondo una nuova musica, la bossa nova, tanto che anche Frank Sinatra si converte, Pelé è il ragazzo di Santos che vendica la discriminazione razziale in un Brasile che ha abolito la schiavitù nel 1888, appena 52 anni prima della nascita del povero bimbo nero che fa il lustrascarpe.
PELE CON EMILIO GARRASTAZU MEDICI
E che sarà avanguardia dimostrando come il futebol nero (spesso disprezzato e con meno diritti) abbia carattere, qualità, dignità. E la forza per vincere. Riscattando anche il portiere Moacir Barbosa, quello del Maracanazo del 1950, maledetto per la pelle scura, per non aver parato il tiro fatale di Ghiggia, additato come "l'uomo che ha fatto piangere tutto il Brasile", condannato come disse lui per l'eternità. «In Brasile la pena massima è di 30 anni, ma io ne sto pagando 50 per un crimine mai commesso».
Allora i giocatori neri erano pochi e venivano incolpati delle sconfitte, perché di diversità multiculturale proprio non se ne parlava. Ma Pelé, il giovane favoloso, a diciassette anni in Svezia nel '58, cambia questa percezione. Con i suoi dribbling afferma che il calcio made in Brasil è un wonderful game, il jogo bonito è fantasia e il futebol bailado merita rispetto e amore.
PELE CON EMILIO GARRASTAZU MEDICI
È una rivoluzione: il ragazzo della favela, quello che ha niente, un figlio del popolo, si prende tutto. Le gerarchie del mondo finiscono sottosopra. Ma Pelé non hai mai rivendicato di essere una Perla Nera. Trascura il tema, quando Cassius Clay rifiuta di andare in Vietnam, lui riafferma di aver fatto il servizio militare.
Si fa usare dalla dittatura, che uccide e tortura, come portatore di gioia, si fa fotografare sorridente con il generale Emílio Garrastazu Médici, il generale della linea dura del regime. Quasi negasse ci sia un problema. «Un sottomesso, un nero abituato a dire solo sissignore», è la critica che gli fa il compagno di nazionale a Messico '70 Paulo Cesar Lima, che aggiunge: «Non contestava mai niente. Una sua sola parola avrebbe voluto dire tanto per il Brasile».
PELE CON EMILIO GARRASTAZU MEDICI
E il dottor Socrates, "Il Tacco di Dio", che credeva che chi gioca a calcio non deve essere per forza stupido e ignorante gli dette del venduto: «Un nero bianco, una marionetta ».
Pelé di recente ha ammesso di aver saputo dei crimini della dittatura. «Ma sono convinto di aver aiutato il Brasile più io con il mio calcio che non tutti quelli che campano con la politica». Non si meravigliava: «Mi hanno dato della scimmia e del negro e allora? Avessi dovuto uscire dal campo ogni volta non avrei mai giocato».
Dribblava su molte cose, non solo gli avversari. Però si è fatto fotografare con una maglia gialla con sopra la scritta "Diretas já", elezioni dirette, lo slogan di un movimento che richiedeva l'elezione presidenziale a suffragio universale diretto. E nell'94 in una conferenza stampa annunciò che si sarebbe presentato alle elezioni come socialista.
PELE CON EMILIO GARRASTAZU MEDICI
Non si candidò, ma divenne ministro dello Sport dal '95 al '98 del presidente di centro-destra Fernando Henrique Cardoso, adoperandosi per la modernizzazione e i diritti dei calciatori brasiliani, con una buona legge sullo svincolo. Controverso, troppo tradizionale e borghese, preoccupato di non prendere mai posizione?
Forse, ma anche Michael Jordan negando l'appoggio ad un candidato democratico (si è pentito) non è stato migliore. Ma Pelé ha saputo restituire anzi dare al Brasile un suo posto nel mondo, che prima non aveva. E oggi c'è chi dice che il football dovrebbe cambiare nome e chiamarsi "Pelébol". Ha dichiarato Silvio Almeida, uno dei più grandi intellettuali neri brasiliani e che sarà ministro dei Diritti Umani nel terzo governo Lula: «Pelé è la prima persona che mi ha fatto amare il Brasile. Vedere un uomo della mia terra essere il migliore in quello che faceva mi ha fatto pensare che malgrado tutto valeva la pena di credere in qualcosa».
PELE CON EMILIO GARRASTAZU MEDICI
E comunque quando Pelé in lacrime nel '77 a New York dette l'addio al calcio segnando ancora un gol, Muhammad Ali era lì sul campo ad omaggiare un re nero che aveva vinto e sedotto anche la società americana. Perché Pelé con i Cosmos al suo arrivo nel '75 aveva firmato per tre anni un contratto da sei milioni di dollari, che equivalgono a 34 milioni attuali.
Nessuna superstar nera in Usa guadagnava così tanto, il più pagato era O.J. Simpson nel football Nfl, 700 mila dollari l'anno, seguito da Wilt Chamberlain, basket Nba, con 600 mila. Il contratto di Pelé non era da calciatore, ma da performing artist, e infatti l'avvocato che si occupò della trattativa era quello di Dustin Hoffman e nello spogliatoio dei Cosmos spesso c'era Mick Jagger che si addormentava. Forse aveva ragione lo scrittore Nelson Rodrigues: «Vedere solo il pallone è come non vedere niente».