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    CORNUTO E TRUFFATO – A LUCCA UNA DONNA HA FALSIFICATO IL TEST DEL DNA PER FAR CREDERE AL COMPAGNO, UN RICCO IMPRENDITORE, CHE IL PICCOLO CHE AVEVA PARTORITO FOSSE SUO FIGLIO: DOPO UN PRIMO TEST CHE NEGAVA LA PATERNITÀ, LA DONNA NON SI E' ARRESTA E HA MANOMESSO IL RISULTATO DEL SECONDO ESAME - PORTATA IN TRIBUNALE DAL COMPAGNO, LA TRUFFATRICE È STATA CONDANNATA A…


     
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    Simone Dinelli per "www.corrierefiorentino.corriere.it"

     

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    Aveva alterato il referto di un test del Dna per convincere il compagno — un facoltoso imprenditore della provincia di Lucca — che quel figlio sino a quel momento cresciuto insieme a lui fosse suo, ma era stata scoperta dall’uomo che si era rivolto al tribunale. Dopo la sentenza di primo grado del 2019 a Lucca, pochi giorni fa la Corte d’Appello di Firenze lo ha ribadito: quel bambino non è dell’uomo che lo aveva visto nascere e crescere. Con tanto di ordine da parte dei giudici al responsabile dell’ufficio anagrafe del Comune di residenza del piccolo — che oggi ha circa 4 anni — di rettificargli il cognome.

     

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    La donna, originaria di un Paese dell’Europa dell’Est, per il momento è stata condannata al pagamento delle spese processuali, ma rischia una incriminazione penale per aver falsificato l’esito del test. La vicenda prende il via nell’aprile del 2018, quando il bambino ha più o meno un anno di età: l’imprenditore inizia a sospettare del comportamento della compagna e così, a sua insaputa, decide di far eseguire un test di paternità su se stesso e quello che fino a quel momento ha creduto sia suo figlio.

     

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    Acquista così un apposito kit, preleva un campione di saliva del piccolo e uno proprio e spedisce tutto a un laboratorio con sede fuori regione. L’esito non lascia spazio a dubbi: il referto evidenzia infatti come dall’analisi dei marcatori genetici investigati emerga una non compatibilità genetica, con conseguente probabilità di paternità pari allo zero per cento.

     

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    Una rivelazione scioccante per l’uomo, che conferma in pieno i suoi sospetti ma che al tempo stesso contrasta con il grande affetto che nel frattempo ha maturato, giorno dopo giorno, nei confronti del bimbo. L’imprenditore, suo malgrado, decide a quel punto decide di rivolgersi al tribunale di Lucca per chiarire la vicenda almeno da un punto di vista legale.

     

    Di questa sua scelta avvisa la compagna, che però chiede e ottiene dall’imprenditore la possibilità di effettuare un secondo test, prima ancora di rivolgersi al tribunale. Ed è questo l’esame di cui la donna, secondo quanto poi sentenziato dai giudici, falsifica l’esito una volta dopo esserne entrata in possesso, per far credere all’uomo che il padre sia lui. Ma l’imprenditore ormai non si fida più, vuole vederci chiaro sino in fondo e va avanti per la sua strada.

     

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    Una volta che la vicenda arriva in aula di tribunale a Lucca, il giudice fa eseguire una perizia tecnica e un terzo e definitivo test di paternità, che ribadisce l’esito degli altri due, fugando via ogni residuo dubbio rimasto. Da qua la sentenza di primo grado, che sancisce come il bambino non sia figlio dell’imprenditore. La donna non demorde, fa appello e pochi giorni fa ecco arrivare il verdetto di secondo grado emesso dalla corte di Firenze, con la quale i giudici fiorentini confermano quanto già contenuto nel dispositivo di primo grado. La madre del bambino dovrà pagare adesso le spese processuali per un totale di circa 4 mila euro.

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