RIUSCIRÀ MATTEO SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE…
1. CORONAVIRUS, È MORTO A MILANO L'ARCHITETTO VITTORIO GREGOTTI
Un nuova vittima del coronavirus: è morto, questa mattina, Vittorio Gregotti, il decano degli architetti italiani, urbanista di fama internazionale. Aveva 92 anni. Era ricoverato alla clinica San Giuseppe di Milano in seguito alle conseguenze di una polmonite.
pujang citta in cina di vittorio gregotti
Gregotti era nato a Novara nel 1927. Dopo la laurea in architettura nel 1952 al Politecnico di Milano entrò, come prima esperienza, nello studio BBPR. . Dal 1953 al 1968 svolse la sua attività in collaborazione con Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino. Nel 1974 fondò la Gregotti Associati di cui è presidente. E' stato anche docente di Composizione architettonica presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ha insegnato nelle Facoltà di Architettura di Milano e Palermo. Nel corso della sua attività accademica è stato anche 'visiting professor' alle Università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge (U.K.) e all'M.I.T. di Cambridge (Mass.).
Tra i suoi numerosi interventi si contano, per esempio la risistemazione di Potsdamer Platz a Berlino, i progetti del Teatro degli Arcimboldi a Milano, del Gran Teatro Nazionale di Pechino e della Chiesa di san Massimiliano Kolbe, a Bergamo. È ideatore del controverso progetto del quartiere Zen di Palermo, di cui anni dopo Massimiliano Fuksas proporrà la demolizione. Gregotti ha sempre dato la responsabilità del fallimento del progetto dello Zen al fatto che non sia mai stato ultimato a causa di infiltrazioni mafiose nella fase di appalto. Uno degli ultimi progetti a cui ha lavorato è stata la ristrutturazione da ex fabbrica del gruppo Ilva a Teatro Fonderia Su Facebook è stata aperta una pagina pubblica in suo ricordo.
2. VITTORIO GREGOTTI: "L'ARCHITETTURA NON INTERESSA PIÙ A NESSUNO"
Intervista di Francesco Erbani per ''la Repubblica'' del 12 luglio 2017
Vittorio Gregotti ha chiuso il suo studio d'architetto. Il 10 agosto compie novant'anni, ma il motivo non è solo anagrafico. "L'architettura non interessa più", dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese - Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po' neogotico, un po' neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c'era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. "Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi".
E niente più?
"Niente più. D'altronde compio novant'anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell'Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un'analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l'architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l'immagine".
lo studio di vittorio gregotti jpeg
Lei fa questo mestiere dall'inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
"Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l'architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso".
Dove l'ha appreso?
"Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ".
Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall'iperspecialismo alla tuttologia.
"Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d'insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica".
pujang citta in cina di vittorio gregotti
Studiava architettura, ma non le bastava.
"La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l'architettura moderna. C'erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un'architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un'eccezione".
E i rapporti con gli scrittori?
"Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto".
Comunque sempre pochi architetti.
"Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d'artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L'altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico".
Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l'industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.
"Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi".
Questo è dovuto all'irruzione del postmoderno?
"Il postmoderno è un'ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l'involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale".
E che cosa è successo?
«Sono saltate le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda, più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione, l’ossessione per la comunicazione».
Mi fa un esempio?
(Sul tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È l’ammissione che l’architettura è sfascio».
Le piace la Nuvola di Fuksas?
«Assolutamente no».
E il Maxxi di Zaha Hadid?
«Il suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione. Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le prescrizioni».
Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.
«Lo Zen avrebbe dovuto essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è realizzata».
È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?
«Io non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano, appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è solo un tema d’architettura».
Lei è stato insegnante a Palermo e ad Harvard, a Venezia e a Parigi. Come guarda ai futuri architetti?
«Mi preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».
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