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Guido Tiberga per "la Stampa"
Un bulletto sfrontato che solleva la gonna a una ragazzina, peraltro pronta ad aiutarlo a torturare un gruppo di animali al suono di un'allegra marcetta dixieland. Una svampita che irrompe nella vita quotidiana di un gruppo di diversamente abili, usa le loro cose, stravolge le loro abitudini, ne fa innamorare senza speranza almeno un paio.
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Un assassino che tenta di ammazzare una minorenne, un veleno nascosto nel più innocuo dei cibi, un bambino muto e un po' tonto costretto a lavorare in miniera. Un figlio di papà che arriva alla fine e risolve tutto con un bacio rubato. Messa così, sembra la trama di un b-movie degli anni Settanta, di quelli che fondevano horror e sesso in un pastone improbabile di offese al buon gusto, all'arte e al politicamente corretto.
Invece sono Steamboat Willie, il primo cartoon di Topolino, e Biancaneve e i sette nani, il primo lungometraggio animato della storia: il personaggio che Sergej Eisenstein definirà «uno dei più grandi contributi americani alla storia della cultura» e il film che molti ricordano come il simbolo di un tempo passato per sempre. Le pietre miliari dell'impero Disney, che oggi ha trasfigurato se stesso e si trova a dover fare i conti con gli eccessi della cancel culture.
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La storia di Walt Disney, di cui ricorrono oggi i 55 anni dalla morte, è una storia di contraddizioni. È difficile collegare la sua biografia con l'idea che ci siamo fatti della sua arte. Forse era soltanto un genio calunniato per invidia, come vorrebbero i suoi agiografi più convinti, o forse era davvero il mascalzone descritto dai suoi nemici: il fanatico fascistoide che faceva la spia per gli uomini di McCarthy nella caccia ai «rossi» di Hollywood, lo sfruttatore di dipendenti, il paranoico egocentrico che schiacciava i collaboratori nel cono d'ombra.
In fondo, poco importa chi fosse davvero. In ogni caso - e nonostante tutto - per decenni Disney ha smesso di essere un cognome per diventare il termine eponimo di un mondo zuccheroso e infantile, di un divertimento sano e lontano dalla violenza, di un buonismo esasperato e stucchevole. Eppure Walt non amava i bambini. Soprattutto non lavorava per loro: ai disegnatori di Biancaneve che gli proponevano una regina rosa e paffuta in pieno stile cartoon, rispose che voleva «una via di mezzo tra Lady Macbeth e il Lupo cattivo».
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Tornato da un viaggio in Europa, impose le illustrazioni di Doré per l'Inferno dantesco come modello per la fuga della ragazza nella foresta, «con gli alberi che si trasformano in mostri e i tronchi che diventano coccodrilli». I film degli anni Trenta su Dracula e Nosferatu furono proiettati negli Studios come ispirazione per il castello della regina: «Deve venir fuori dalle ombre come mister Hyde dal dottor Jekyll».
Per molti dei suoi 55 anni senza Walt, l'impero Disney è andato avanti, alternando successi e cadute, su una strada modellata più sulla percezione del pubblico che sugli intenti del fondatore. Un omaggio al business, più che un tradimento: qualcuna delle novità, probabilmente, Walt l'avrebbe pure apprezzata: la svolta verso l'animazione in 3d, ad esempio, così come la trasposizione in live action dei cartoni più noti.
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D'altra parte l'ossessione dei suoi ultimi anni, ha raccontato la figlia Diane, era «l'illusione della vita». Un traguardo che i mezzi di allora non gli potevano regalare fino in fondo, almeno sullo schermo. Per questo, scrive Diane, l'unico vero obiettivo di Walt era diventato Disneyland, la terra dove ancora oggi la fantasia si trasforma in realtà. Quello che manca, nei parchi e nei vecchi film, è il rispetto delle nuove sensibilità.
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Ed è qui che si incarna il paradosso attuale di Disney, il cattivo che il mondo voleva buono, il misantropo che grazie alle sue creature appariva come l'amico di tutti. Molti dei cartoni animati classici, che i boomer hanno visto al cinema e i loro figli prima in home video e poi in streaming su Disney+, sono accompagnati da una nota che ne consiglia la visione a un pubblico maturo.
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«Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo». Così recita l'avviso. Lo stigma è toccato a Dumbo, «perché i corvi che suonano e cantano «ricordano i menestrelli razzisti che si esibivano con la faccia dipinta di nero», a Peter Pan che non rispetta i nativi americani, a Gli Aristogatti per una coppia di mici dalle fattezze orientali, al Libro della Giungla , dove una scimmia canta in stile jazz e sembra una caricatura degli afroamericani.
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A Orlando, la riapertura post Covid di Disney World ha portato qualche piccola innovazione. Nella tradizionale attrazione dedicata a Biancaneve, la scena finale con la morte della strega, terrificante per i bambini di oggi, è stata sostituita dal «true love' s kiss» tra il principe e la protagonista ancora addormentata. Un inatteso passo falso.
Due donne, Katie Dowd e Julie Tremaine, hanno protestato scrivendo un articolo sul San Francisco Gate: «Come si fa a definirlo bacio d'amore se lei non è cosciente? Non abbiamo sempre parlato di consenso? Non abbiamo sempre detto che bisogna insegnare ai bambini che un bacio tra due persone, se non sono entrambe d'accordo, non va bene?».
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L'obiezione di Dowd e Tremaine ha aperto un dibattito che ha rimesso sul piatto vecchie idee e nuove censure. Qualche settimana dopo, un commento sull'Orlando Sentinel ha mandato la palla dall'altra parte del campo: «Frequento il parco da decenni, sono tornato quest' anno e devo dire che la wokeness mi ha rovinato l'esperienza».
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Wokeness è la parola che sta condizionando le aziende americane: indica lo «stare svegli», il prestare attenzione alle ingiustizie sociali, anche quelle nascoste nei meandri della tradizione. L'intervento sul Sentinel ha scatenato una polemica e un dibattito ancora in corso.
È l'ennesima contraddizione intorno al nome di Disney, l'uomo sopravvissuto a se stesso: il cattivo insensibile che tutti volevano vedere come buono, è tornato nel tritacarne 55 anni dopo la morte perché troppo attento al nuovo vento sociale. Alla fine, anche i geni non sfuggono al contrappasso. -
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