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    COSÌ HO DISTRUTTO LA VOLKSWAGEN - LA STORIA DEGLI INGEGNERI (EX) SFIGATI CHE HANNO SCOPERCHIATO IL DIESELGATE E HANNO FATTO PERDERE AL GIGANTE TEDESCO REPUTAZIONE E DECINE DI MILIARDI DI DOLLARI - IL MITE PROFESSORE, LA PICCOLA UNIVERSITÀ, I TEST FATTI CON AUTO IN AFFITTO: ''PIÙ CHE DAVIDE CONTRO GOLIA, SIAMO COME DEI FORREST GUMP''


     
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    Riccardo Staglianò per ''il Venerdì - la Repubblica''

     

    dan carder dan carder

    Morgantown (West Virginia). Di cosa può avere paura un uomo che caccia gli orsi con un arco? Di quasi niente, appunto. Nemmeno di un’azienda che, prima che lui entrasse in scena, valeva 80 miliardi di dollari, ma poi ne ha visti svanire quasi un quarto e rischia di dover pagare multe per altri 48 miliardi. Ma non chiamate Dan Carder la nemesi di Volkswagen. Questo ingegnere quarantacinquenne, con una corporatura decisamente più berlina che coupé, non ce l’aveva con nessuno in particolare.

     

    Però il centro che dirige all’Università della West Virginia si occupa di benzine alternative ed emissioni e aveva finalmente racimolato un finanziamento per testare su strada alcune vetture diesel. Non era mai stato fatto prima perché la legge si accontenta delle prove in laboratorio. Così ha scoperto una differenza fino a quaranta volte tra la teoria e la pratica.

     

    dan carder dan carder

    Per tutta risposta il numero uno del secondo gruppo automobilistico del mondo, in una sorta di versione tedesca dell’harakiri, si è dimesso. Der Spiegel ha messo in copertina un maggiolone accompagnato alla sepoltura sotto al titolo Il suicidio. E Angela Merkel, che sino al giorno prima aveva incendiato l’immaginazione del comitato del Nobel per la pace con la sua magistrale uscita sull’accoglienza incondizionata dei rifugiati, è risultata il danno collaterale più insigne della tempesta di fango, dovendosi accontentare di finire, tempo dopo, sulla cover di Time.

     

    Tutto questo per una freccia accidentale scoccata dal prof mite che siede davanti a me, la cui massima aspirazione da bambino era di lavorare alla Ford, anche come meccanico semplice, e che ha investito il grosso del suo tempo libero, dai quattordici ai diciassette anni, nel restaurare la Mercury Cougar del ‘67 di suo padre. Quelle sì che erano macchine...

     

    dan carder dan carder

    Il Dieselgate incarna perfettamente la dialettica Davide-vs-Golia, con un docente e tre studenti di uno degli stati più sfigati degli Stati Uniti che mettono in ginocchio la multinazionale di Wolfsburg. Ma i suoi protagonisti si schermiscono e suggeriscono che siamo piuttosto dalle parti di Forrest Gump («Abbiamo solo raccolto dati»). Di certo è una storia complicata, con alcuni aspetti sorprendenti (tra gli altri: perché nessuno aveva controllato prima?) e almeno uno ancora misterioso (come pensavano di farla franca?). Che si svolge in due atti (2013 e 2015) e un prologo (1998). Cominciamo.

     

    carder e arvind carder e arvind

    Nell’estate del 2013 Carder, direttore del Center for alternative fuels and emissions, riesce finalmente a rimediare i 69 mila dollari che gli servono per provare su strada tre auto diesel. Lo fa a fini accademici, perché i regolamenti federali si accontentano dei test in laboratorio. Ma lo fa anche perché nel ‘98, giovane ricercatore, aveva partecipato a un controllo analogo sui camion diesel che si concluse con 87 milioni di dollari di multe da parte dell’Environment protection agency (Epa) contro le case produttrici che promettevano un livello di emissioni e ne mantenevano un altro, ben superiore.

     

    Le macchine stavolta sono due Volkswagen (una Jetta e una Passat, con due tecnologie catalitiche diverse) e una Bmw X5. Si tratta di attaccare ai loro tubi di scappamento un Pems, un misuratore di emissioni grosso come un vecchio impianto stereo, a sua volta alimentato da un rumorosissimo generatore e comandato da un computer portatile che monitora i vari gas. Il primo problema è rimediare le auto.

     

    arvind thiruvengadam arvind thiruvengadam

    Negli Stati Uniti, prima sorpresa, i diesel sono una rarità: l’1-2 per cento delle nuove auto, contro il 50 per cento europeo. Un po’ le considerano vetture mosce, un po’ la benzina costa meno che da noi. Setacciando i siti specializzati, le trovano in affitto in California, dove c’è anche un laboratorio per il controllo della qualità dell’aria dove potranno fare i raffronti. E perché solo marche europee? Perché l’unica azienda locale (oggi proprietà Fiat) che produce diesel è la Jeep e le altre, pur nei piccoli numeri menzionati, sono più diffuse.

     

    On the road

    Carder manda tre suoi studenti di Phd poco più che ventenni: lo svizzero Marc Besch e gli indiani Arvind Thiruvengadam e Hemanth Kappanna. A gruppi di due, uno alla guida, l’altro alla strumentazione, testano le auto nelle condizioni di traffico più disparate. E si accorgono che i livelli di ossidi di azoto (NOx) non sono affatto come dovrebbero essere. Per capire meglio Marc mi porta a fare una prova su strada, prendendo in prestito una Grand Cherokee diesel di uno dei docenti di qua (che evidentemente, prima dei test, non si erano accorti di avere a disposizione).

     

    gli ingegneri dell universita del west virginia che hanno scoperchiato il dieselgate gli ingegneri dell universita del west virginia che hanno scoperchiato il dieselgate

    Monta l’attrezzatura, scalda il motore e facciamo un giro per la città. Sul monitor del portatile ci sono varie curve, di colori diversi, che rappresentano velocità, esausti, anidride carbonica e i famigerati ossidi di azoto. Quando accelera li vedi schizzare, ma poi quando i giri del motore si stabilizzano, le curve si ammansiscono.  Ecco, per 14-16 ore al giorno («Molti caffè e poco sonno»), una settimana per auto, due estati fa hanno fatto lo stesso con le tre auto europee.

     

    In due casi, anche quando dovevano scendere, gli ossidi restavano su. «La prima cosa che abbiamo pensato» confessa Marc, incarnato chiarissimo, occhi azzurri con felpa e sneakers Puma, «è che i nostri macchinari sbagliassero. Che ci fosse qualcosa che non andava nei sensori». Ma dopo un numero paranoico di verifiche quest’opzione ragionevole e modesta è stata esclusa. Il problema stava altrove.

     

    merkel merkel

    Marc e Arvind ora sono seduti al tavolo di una sala conferenze della facoltà di ingegneria. Hemanth è in collegamento telefonico. Dan e l’ufficio stampa, che è passata dal trattare con le riviste di settore locali ai reporter giapponesi gonfi di Shadenfreude per i guai dell’unico vero rivale della Toyota, vegliano bonariamente su di loro. E allora come si sono spiegati la discrepanza?

     

    «Non ce la siamo spiegata, l’abbiamo registrata» esordisce Arvind, capelli nerissimi e scuro di pelle, la camicia blu fuori dai pantaloni. Per poi aggiungere: «Aleggiava, tra noi, il precedente leggendario del ‘98, ma non pensavamo proprio che potesse accadere di nuovo». La sera prima al Cafe Bacchus, probabilmente l’unico buon ristorante della città, Dan Carder mi aveva offerto la medesima prova di candore scientista: «Siamo ingegneri, non andiamo forte sull’immaginazione. Dovevamo raccogliere dei dati e i dati erano anomali. Solo quello, al momento, potevamo dire».

    volkswagen winterkorn volkswagen winterkorn

     

    Per aggiungere ipotesi hanno dovuto aspettare parecchio. Giornalisticamente parlando, è inconcepibile: hai in mano dei dati tutti sballati, riguardanti una multinazionale dalla reputazione sin lì immacolata, e non ti viene spontanea la domanda: perché? Ma unire i punti era oltre la loro giurisdizione accademica. D’altronde quello era solo uno dei progetti in corso. Il paper diventa pubblico, in una conferenza di specialisti a San Diego, nel marzo del 2014.

     

    matthias mueller volkswagen matthias mueller volkswagen

    La stranezza salta subito all’occhio di qualche funzionario dell’Epa che a quel punto apre un’investigazione, rifà i controlli e arriva alle medesime conclusioni. Che vengono riassunte venerdì 18 settembre 2015 in un comunicato che per la prima volta fa il nome di Volkswagen, aprendo la voragine da cui ancora fatica a riemergere.

     

    Piccola pausa tecnico-esplicativa. Il diesel inquina meno della benzina quanto ad anidride carbonica, ma di più per particolato e ossido di azoto. Per risolvere quest’ultimo problema si usano i suoi oli esausti (Def), caricati nel vano motore, che di fatto scompongono gli ossidi in azoto e acqua, abbattendoli da 100 mila parti per millilitro fino a 10 parti per millilitro.

     

    matthias mueller volkswagen matthias mueller volkswagen

    Questa ripulitura, però, non è gratis. Nel senso che riduce la potenza del motore (da sempre uno dei punti deboli dei gasolio) e aumenta il consumo di carburante (il suo punto forte tradizionale). Aggiungete che questo Def sta in un serbatoio supplementare che occupa spazio prezioso e che, di quando in quando, deve essere rabboccato, come l’olio o l’acqua. Tutte scocciature di cui un guidatore fa volentieri a meno.

     

    VOLKSWAGEN 1 VOLKSWAGEN 1

    Infine considerate che gli standard americani di qualità dell’aria (seconda sorpresa) sono assai più stringenti di quelli europei. Quindi, per essere commercializzate qui, il procedimento catalitico doveva funzionare particolarmente bene. L’alternativa onesta, quella seguita da Bmw (avvantaggiata anche dall’essere un modello più grande, che poteva ospitare più facilmente il contenitore degli esausti), è stata di trovare delle soluzioni ingegneristiche che salvassero capra e cavoli.

     

    La scorciatoia imboccata da Volkswagen consiste invece nel rispettare le regole durante il test in laboratorio, per poi violarle su strada. Un algoritmo disabilitava il meccanismo di abbattimento, il motore tornava d’incanto più ruggente e le emissioni si moltiplicavano per decine di volte, alla faccia dell’ambiente e dei polmoni degli ignari americani. Ma come faceva il software a sapere quando l’auto era in laboratorio?

    multa volkswagen multa volkswagen

     

    «Da una quantità di indicatori» spiega Carder, «tra cui il fatto che il cofano era aperto; il volante non si muoveva; i sensori del sedile non rilevavano nessun peso e quelli dell’Abs non erano attivi; il Gps non riceveva segnale e gli accelerometri piazzati nelle ruote non subivano variazioni. Insomma, qualsiasi auto è ormai un computer su ruote con chip che registrano tutto». Fine della digressione elettro-meccanica.

     

    VOLKSWAGEN MOTORE PULITO TRUFFA VOLKSWAGEN MOTORE PULITO TRUFFA

    Il V-Day coglie i nostri eroi impreparati. Ad avvertire Carder ci pensa il proverbiale cronista. «Stavo aggiustando il motore di un camion di un amico. Quando poi recuperai il telefono vidi varie chiamate da numeri sconosciuti. Con le mani finalmente pulite dal grasso potei rispondere. Mi chiedevano di commentare e furono gentili da concedermi dieci minuti per guardare prima su internet cosa stava succedendo».

     

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    Marc è in ritiro per preparare la dissertazione di dottorato: lo scoprirà a notte fonda quando riaccenderà il cellulare. Arvind, che ha l’ufficio accanto a quello di Dan, deduce che qualcosa di strano sta accadendo dalla sua sospetta ipercinesi in corridoio. Tornando a Carder, l’ingegnere che legge poco, va al cinema di rado ma ascolta parecchia musica, dal country al bluegrass all’heavy metal («La mia vera passione sono i Kiss»), nel fine settimana rintuzza l’offensiva mediatica, sperando che passi. Illuso.

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    Lunedì lo avvisano che sta arrivando in città una troupe della Cbs e si fa portare dalla figlia un vestito leggermente più elegante («È incredibile: per la mia notorietà hanno fatto più quei due minuti in tv che una vita di lavoro»).

     

    Quando li incontro, quasi tre mesi dopo l’esplosione dello scandalo, i danni vanno ancora quantificati esattamente. Il giorno prima il New York Times ha pubblicato un’articolessa sul tramonto del diesel, vittima di un petrolio sempre più a buon mercato, di motori a benzina più ecologici e delle incipienti auto elettriche. Oltre che, ovviamente, della pioggia acida del Dieselgate.

     

    martin winterkorn amministratore delegato volkswagen martin winterkorn amministratore delegato volkswagen

    Negli stessi giorni il presidente Hans Dieter Pötsch definisce l’ordalia dalla quale la sua azienda sta passando «la più impegnativa della nostra storia», annunciando per il momento il licenziamento di nove dirigenti a vario titolo coinvolti nella vicenda che riguarda undici milioni di vetture. Versione ufficiale: nel 2005, non sapendo come rispettare i regolamenti senza degradare troppo le prestazioni, avevano individualmente deciso di barare.

     

    Gli chiedo se non ha mai avuto paura di affrontare un bersaglio così grosso e, vergognandomi mentre lo dico, se non gli sia mai passato per la testa di proporre una soluzione amichevole. «Scherza? Noi all’inizio la Volkswagen l’abbiamo contattata, ma per farci dare le auto per i test che invece abbiamo dovuto affittare. Ma non ci hanno neanche presi in considerazione. E paura, perché mai?».

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    Nega anche che la sua università sia così piccola: «In totale abbiamo 30 mila studenti, e dai nostri laboratori è passato un discreto numero di ingegneri da Tor Vergata, con cui abbiamo uno scambio». I laboratori, per capirci, assomigliano molto più a officine che a posti dove si fa ricerca. Hangar che ospitano immensi motori di camion o bus, grandi come carcasse di tori meccanici, collegati a bocchettoni e a reticoli di grossi tubi, molti dei quali saldati a mano da Dan e dagli studenti, che vanno a finire dentro sistemi elettronici che ne analizzano la composizione chimica.

     

    Non è un ambiente che induce la gente a montarsi la testa. Però nella modesta storia di questo posto sono cambiate più cose nell’ultimo trimestre che nei trent’anni precedenti. «L’ateneo non ci aveva mai considerato granché», ammette senza acrimonia Carder, «mentre ora ha annunciato fondi per raddoppiare il nostro gruppo di lavoro di diciotto ingegneri». A farlo particolarmente felice c’è la circostanza che molti più studenti, da tutto il mondo, vogliono venire a fare un’esperienza qui.

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    Arvind, che nel frattempo è stato nominato da un importante forum la seconda persona più influente dell’automotive industry (il corrispettivo di un Pallone d’argento) e che al Detroit Motor Show ha ricevuto il premio All Stars con Dan, è entusiasta che adesso, quando presenteranno dei progetti, saranno tutti molto più attenti.

     

    È già successo. Da cinque anni questa squadra aveva chiesto, invano, finanziamenti all’Epa per un meccanismo piuttosto ingegnoso e a buon mercato per analizzare le emissioni di auto su strada. Ora anche Google si è detta interessata a raccogliere, oltre a tutti gli altri, anche i dati che escono dai tubi di scappamento dell’umanità. Mi mostrano la creatura con orgoglio paterno, di quei padri cui i figli sono stati una conquista tardiva. In pratica si tratta di una versione miniaturizzata dei Pems, i cassoni adoperati per sgamare le Volkswagen truffaldine.

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    Meno precisa, ma tanto più capillare, con la differenza che quello costa 2-300 mila dollari mentre l’Aircom, questa scatolina grande come un telecomando da cancello, a regime ne costerà solo un centinaio. «Andrà collegato allo scappamento e trasmetterà, via cellulare, i dati in tempo reale» spiega Carder. «Così si potrà sapere che concentrazione di gas nocivi ci sono e dove, di modo che chi guida possa rallentare oppure allontanarsi». È un esempio di crowdworking, di un compito distribuito a una moltitudine di utenti.

     

    «Pensate a Waze, l’applicazione che vi avverte di imbottigliamenti e autovelox, ma per l’inquinamento» aggiunge Marc. Mi sfugge perché un qualsiasi essere umano dovrebbe accollarsi questa spesa supplementare. Ci hanno pensato: «È anche una maniera per capire lo stato del motore e quindi intervenire prima, risparmiando, se c’è qualcosa di anomalo. Oppure proveremo a contrattare sconti sulla revisione o sull’assicurazione, dal momento che le caratteristiche dello scappamento dicono anche cose sullo stile di guida». Di certo stavolta anche l’Epa prenderà la richiesta, dopo un lustro di due di picche, terribilmente sul serio.

    MERKEL AL VOLANTE VOLKSWAGEN MERKEL AL VOLANTE VOLKSWAGEN

     

    Il vero mistero, opaco come una nuvola di smog, resta come alla Volkswagen sperassero di farla franca. Greg Thompson, il supervisore della squadra di Carder, offre un’analogia sportiva: «È come per gli atleti col doping: cercano di stare dentro i limiti, ma all’ultimo millimetro possibile». Qui la legge diceva «test di laboratorio» e sul resto si faceva come se non ci fossero.

     

    Finché qualcuno non ha deciso, di testa sua, di farli. L’ossido di azoto provoca varie malattie respiratorie, bronchiti ed enfisema. L’ultima sorpresa, di una storia che ne è letteralmente lastricata, è che, data l’esiguità del parco circolante, le auto diesel americane sono responsabili dello 0,01 per cento del totale delle sue emissioni. Di questo parliamo quando parliamo di Dieselgate.

     

    Non di un bis dell’Exxon Valdez, ma di una colossale crepa nella fiducia nei confronti di un’azienda che ne sembrava l’epitome. Gli ingegneri Volkswagen, giurano i vertici, stanno «lavorando notte e giorno» per risolvere il problema. Ritireranno le auto manipolate e devono trovare una soluzione ingegneristica che tenga insieme scappamenti decenti con prestazioni non troppo sedate. «Non è una sfida da niente» concede Dan Carder. Che, non fosse stato per lui, i tedeschi si sarebbero allegramente risparmiati.

    Martin Winterkorn CEO Volkswagen Martin Winterkorn CEO Volkswagen

     

     

     

     

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