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    COSÌ KITCH DA ESSERE ARTISTICO – ALLE “SERPENTINE GALLERIES” DI LONDRA, L’ARTISTA CALIFORNIANA LAUREN HALSEY RACCONTA LA COMUNITÀ AFRO-AMERICANA DI LOS ANGELES ATTRAVERSO UN GIARDINO “FUNKY”, TRA ECCESSI, COLORI ACIDI E RICHIAMI ALL’ANTICO EGITTO – RIELLO: “ALEGGIA LA CULTURA POPOLARE/VERNACOLARE. LA MORALE È CHE NON ESISTONO CULTURE ‘ALTE’ O CULTURE ‘BASSE’, COESISTONO SOLO CODICI CULTURALI DIFFERENTI” – NELLO STESSO MUSEO, LA MOSTRA DELLA COPPIA EVA JAGER E LIZ STUMPF, CHE HA MESSO ALLA PROVA UN SOFTWARE DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE CON LA CREAZIONE DI MUSICA RELIGIOSA. DA VEDERE E SENTIRE…


     
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    Antonio Riello per Dagospia

     

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    Nel bel mezzo dei Giardini di Kensington, a poca distanza l’una dall’altra, si affacciano due palazzine, sono le Serpentine Galleries (direttrice: la bravissima Bettina Korek; direttore artistico: l’iconico Hans Ulrich Obrist) quella più a Sud offre attualmente “emajendat”, una cospicua installazione di Lauren Halsey, artista californiana nata nel 1987.

     

    La sua notevole ricerca verte sulla vita quotidiana della comunità afro-americana stanziata nella parte centro meridionale di Los Angeles. Indaga artisticamente le dinamiche culturali (e materiali) della gente che abita in queste zone.

     

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    Si parla ovviamente di emarginazione (anche al confine della legalità) ma anche di orgoglio e di precise scelte estetiche (con una loro ricca simbologia). Per lei si può parlare di Afrofuturismo e - in termini più ampi - di Funk. Ha già un curriculum piuttosto robusto che va dal MoMA di New York al MoCA di Los Angeles.

     

    Attenzione a non cadere nella trappola automatica del “cattivo gusto degli americani” quando si entra nelle sale della Serpentine. Sì, è vero, il colpo d’occhio iniziale è destabilizzante, almeno per le abitudini europee. Colori acidi e vivaci fanno subito pensare ad un Pop sottoproletario e lisergico. Specchi e tanta plastica lucida non danno tregua.

     

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    Onnipresenti e curiosi i rimandi all’Antico Egitto (sfingi e piramidi) con aggiunte (quanto basta) di pattern leopardati e/o tigrati. Una pletora ossessiva di palme e palmizi (in vetroresina o in plexiglass) avvolge i visitatori. Lustrini e brillantini sfavillano ovunque. E una imponente fontanona - stile Luna Park esotico - campeggia nel salone centrale.

     

    In realta’ c’è molto di più: è una serrata e intelligente sintesi della cosiddetta cultura del “retrocasa”, ovvero degli spazi-giardino - sia comuni che privati - presenti dietro le abitazioni in certe parti delle città californiane. Ambienti molto spesso decorati seguendo un’idea di eleganza (e bellezza) che semplicemente ha parametri diversi da quelli che molti di noi considerano come acquisiti.

     

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    Aleggia potentemente la cultura popolare/vernacolare. Si potrebbe anche immaginare - e in effetti lo ricorda un po’ - il mondo delle bancarelle che in alcune strade di Napoli vendono i personaggi del tradizionale Presepe (evidentemente con diverse coordinate geografico-identitarie). Alla possibile perplessità iniziale segue rapidamente un senso di compiaciuta curiosità. In sintesi è un (disordinatissimo e vitale) “giardino funky”, così lo definisce l’artista.

     

    Usando i termini degli specialisti: siamo di fronte a un “Kitsch così evoluto e consapevole da diventare vero e proprio “Camp” (concetto un po’ sfuggente che significa comunque la presa in giro del Kitsch stesso). Non esistono culture “alte” o culture “basse”, coesistono solo codici culturali differenti: questa è la morale (se la si vuole prendere in considerazione). Un progetto, quello della Halsey, davvero interessante e molto ben realizzato.

     

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    Da parte sua la Gallery North ospita “The Call”, un progetto davvero avveniristico curato da Eva Jager e Liz Stumpf. I due artisti coinvolti sono Holly Herndon (artista e musicista affermata, nata negli USA nel 1980) e Mat Dryhurst (artista britannico nato nel 1984). Entrambi lavorano attualmente a Berlino e sembrano molto in sintonia con la proverbiale precisione e affidabilità teutonica.

     

    Il loro lavoro ha caratteristiche quasi opposte al precedente. I riferimenti visivi sono ad una sorta di Rococò illuminista, puritano e ordinato. Si sfiora quasi il minimalismo in certi aspetti. I colori sono solo due: un bel bianco caldo e un oro ricco pallido. Il resto è suono angelico.

     

    I due artisti, affascinati dal potere crescente dell’Intelligenza Artificiale (AI), hanno deciso - assistiti da una valente squadra di tecnici informatici - di metterla alla prova su un campo di azione tipicamente umana: la musica e il coro. Hanno voluto vedere come un software di AI possa imparare a cantare e a ricreare musica religiosa. Per farlo hanno registrato - per circa tre anni - molti famosi cori in giro per tutto il Regno Unito in modo da poter fornire al software del materiale di qualità da poter utilizzare.

     

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    La mostra si sviluppa in tre ambienti differenti.  Una prima poderosa installazione, “The Earth”, che potrebbe essere definita “Barocco High Tech”, emette musica d’organo creata artificialmente e in continua evoluzione. La struttura visibile è un magnifico assemblaggio di ventilatorini controllati da un’unita’ centrale. L’aspetto è paludato come se si fosse in una chiesa del Nord Europa alla fine del ‘600 (con tanto di angeli che soffiano nelle trombe). Un tempietto che è un magistrale equilibrio tra tecnologia spinta, umanesimo e Alter-Theology.

     

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    La seconda e la terza parte, “The Wheel” e “The Oratory”, utilizzano un ambiente chiesastico molto raffinato (in stile protestante, quasi astratto) che prende la forma di una moderna sala di registrazione. Il pubblico può (al massimo in quattro alla volta o singolarmente) dar sfogo alle proprie doti canore.  E intanto l’AI impara e mette da parte. Poi ripropone - a modo suo - in modalità corale quello che è stato appena cantato. Il risultato è impressionante.

     

    Tutto il materiale sonoro, mixato sempre dal software, viene contemporaneamente diffuso nelle parti comuni, “Linked Diffusion”, creando un’atmosfera molto particolare. Sicuramente un’operazione ambiziosa e raffinatissima che lascia il segno. C’è anche una suggestione da Fantascienza: forse un giorno nelle cerimonie religiose al posto del coro ci saranno le voci create dall’AI. Da vedere (e da sentire).

     

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    Lauren Halsey: EMAJENDAT

    SERPENTINE GALLERY  SOUTH

    Kensington Gardens, Londra

    Fino al 2 Marzo 2025

     

    Holly Herndon & Mat Dryhurst: THE CALL

    SERPENTINE GALLERY NORTH

    West Carriage Drive, Londra

    Fino al 2 Febbraio 2025

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