Antonio Riello per Dagospia
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Dorothea Tanning, nasce a Galesburg nell’Illinois nel 1910 (morira’ a New York 102 anni dopo!). Si sposta prima a Chicago e poi a Manhattan dove fa la “commercial artist” per il grande magazzino Macy’s (lo stesso posto e lo stesso lavoro che fara’ Andy Wharol negli anni Cinquanta, prima di diventare il grande guru della Pop Art). Conosce Max Ernst, uno delle colonne portanti del Surrealismo, che nel 1942 si era rifugiato negli negli Stati Uniti. Si mettono assieme e la loro storia durera’ parecchio (fino alla morte di Ernst nel 1976). Lei diventa ufficialmente un artista surrealista.
In effetti lo era gia’ da prima. “Birthday” (1942) che dipinge prima dell’incontro con l’artista tedesco lo testimonia. I tratti salienti del Surrealismo ci sono tutti: l’atmosfera onirica, il contesto goticheggiante, il culto dell’Assurdo, un che di inquietante e trasgressivo.
La sua pittura di quegli anni, semplificando molto la questione, la si potrebbe definire come un ibrido tra quella di Salvador Dali’, quella di Giorgio De Chirico e quella di Paul Delvaux. L’artista e’ una appassionata lettrice dei testi gotico-romantici di Ann Radcliffe a cui intitola anche alcuni lavori. In quegli anni inizia comunque a collaborare con il coreografo George Balanchine (in mostra ci sono dei bei disegni legati a questa attivita’).
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Di fatto, dipinti come “La Truite au Bleu” (1952) hanno in ogni caso una loro originalita’: il reale e il fantastico si scambiano continuamente di posto in un affascinante e raffinata alternanza. Pure “Endgame” (1944) e’ un quadro si fa notare per il suo piglio. Anche se rimane comunque vero che “scoprire il Surrealismo negli anni Quaranta sarebbe stato un po’ come scoprire, oggi, la musica degli Abba” (come scrive causticamente W. Januszczak sul Sunday Times).
Il Surrealismo e’ stato un movimento piuttosto misogino ma ci sono anche altre figure femminili che, faticando sicuramente di piu’ dei colleghi maschi, sono riuscite ad affermarsi: Leonor Fini e Leonora Carrington (che ebbe tra l’altro una relazione con Ernst prima della Tanning). Questa mostra alla Tate Modern, curata da Alyce Mahon and Ann Coxon, fa parte di un ampio progetto delle istituzioni britanniche che, spaziando tra situazioni varie, vuole dare finalmente e opportunamente un giusto risalto all’ “altra meta’ del cielo” dell’Arte Contemporanea.
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Negli anni Cinquanta/Sessanta la Tanning si sposta prima a Sedona (in Arizona) e poi Parigi e inizia a dipingere in maniera diversa sempre figurativa ma con una componente quasi informale, vagamente misteriosa. Nei quadri di questo periodo compaiono, molto spesso seminascosti, il suoi amati pechinesi. Guardarli diventa, dopo un po’, quasi una “caccia al cane”. Pur adorando gli animali domestici si potrebbe dire che sono purtroppo le sue opere meno interessanti. In breve: hanno poca personalita’ ma potrebbero decorare con estrema efficacia degli studi veterinari di lusso.
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Nel frattempo pero’, continuando a collaborare attivamente con la coreografia, inizia una nuova serie di lavori fatti di lana, cartone, calze in nylon, gomma piuma, stracci e stoffe. Oggetti, sculture, reliquie, quasi-abiti. Inclassificabili e magnifici. Ce ne sono di piccoli e di enormi. L’opera piu’ eclatante di questo tipo e’ la grande installazione realizzata tra il 1970 e il 1973 dal nome “Hotel du Pavot, Chambre 202”, che qui alla Tate viene fedelmente ricostruita. Dalle eleganti pareti saltano fuori, imprevedibili, corpi straziati e contorti. Forte come un incubo e definitiva come un capolavoro.
Sono notevoli tutte le opere di questo tipo ma “Embrace” (1969), “Tweedy (1973), “Traffic Sign (1970) sono tre casi senz’altro superlativi. Sogni che si materializzano. Ambigui, inafferrabili e potenti.
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La Tanning quando smette di dipingere come gli uomini (surrealisti) ed inizia a lavorare con gli strumenti tradizionalmente legati al mondo femminile (stoffe e macchina da cucire) diventa una pioniera di grande talento. In qualche modo realizza concetti ed atmosfere che poi si ri-trovano prima nella ricerca di Louise Bourgeois e, piu’ tardi, in quella di Sarah Lucas.
L’effetto della mostra? E’ come andare a vedere due rassegne di due artiste diverse. La prima sembra imitare, con buona volonta’, lo stile di qualcun altro. La seconda ha la sua identita’, se la tiene stretta, e non deve proprio niente a nessuno.
Conclusione (forse banale) all’uscita dalla mostra: nell’arte vince sempre e solo la sincerita’.
DOROTHEA TANNING
TATE MODERN
Bankside, Londra SE1 9TG
Fino al 9 Giugno 2019
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