Fotografie di Roberto Cotroneo
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Quando ho visto per la prima volta questo progetto di Roberto Cotroneo ho subito pensato al bellissimo libro di Daniele Del Giudice intitolato Nel Museo di Reims. Le due storie sono, ovviamente, differenti ma a fare da collante ci sono due elementi che ritornano come costanti fisse: la magia di un luogo, il museo, e la potenza delle immagini che sanno trasformarsi in sentimento.
Queste fotografie di Roberto Cotroneo assomigliano proprio a un lungo abbraccio e l’effetto, comunque le si guardi, resta quello di chi è riuscito a definire un contesto, lontano dalla documentazione e a favore delle emozioni.
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Penso che in questi scatti ci sia una notevole quantità umana. Ci sono armonia e poesia, silenzio e passione, talento e competenza.
Roberto, da grande narratore di storie quale è, riesce a mettere in immagine la differenza tra il vedere e il guardare, tra il sentire e l’ascoltare e il sentire, tra il nutrirsi e il gustare. Il suo, più che un reportage, sembra un esercizio militante dedicato alla resistenza della memoria.
Così, le fotografie si fanno specchio e formano una raccolta di attimi che danzano sulla piattaforma di un tempo che pare infinito. Sono i sussurri raccolti negli anni all’interno di luoghi che conservano e restituiscono segreti centenari e che suggeriscono suggestioni del domani. Il futuro passa certamente da queste parti e con la coda dell’occhio raccoglie i riflessi del passato e del un presente per portali con sè. Non si può fare a meno della storia e non si può rinunciare alla bellezza. Sostare davanti a un dipinto significa potersi specchiare. Significa ritrovare il peso delle ombre e il mistero degli sguardi. Osservare queste stampe significa abbandonare malinconiche utopie e costruire, ognuno per sé, un ideale deposito delle cose del mondo.
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Gennaio 2020 - Denis Curti
LA MOSTRA E IL PROGETTO FOTOGRAFICO
Roberto Cotroneo
Sono tanti e importanti i fotografi che hanno scattato immagini nei musei o nelle gallerie d’arte. Il più conosciuto è certamente il lavoro di Thomas Struth “Museum Photographs”, messo a punto dal grande fotografo tedesco tra il 1989 e il 1992. Hanno scattato foto nei musei anche Elliott Erwitt, Martine Frank, Henri Cartier Bresson, Luigi Ghirri.
Ma prima di Struth, su un verso completamente opposto, c’è stato Luigi Ghirri, che nel 1986 ha scattato 102 fotografie di piccolissimo formato, 6x8 centimetri, proprio dentro i musei, osservando il pubblico. Mentre Struth decide di fotografare anche con il banco ottico (dunque si rende visibile dai visitatori) per poi esporre le sue foto in formati grandissimi. Ghirri fa l’opposto. Rende tutto piccolissimo.
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Mentre con Struth ho sempre la percezione che ci sia troppa gente, con Ghirri tutto è detto sottovoce. Mentre Erwitt, Frank e Cartier-Bresson cercano lo scatto particolare che faccia di un gesto dei visitatori nel museo qualcosa di irripetibile, Ghirri è un basso continuo, una costante. E Struth un discorso ad alta voce, una partitura per orchestra. Anche i formati lo dicono.
Quasi invisibile Ghirri, plateale Struth. Era da lì che dovevo partire. Ma con un elemento in più, che è quello determinante: ovvero che il pubblico è il tempo. Sono passati oltre 30 anni dai lavori di Ghirri e di Struth: un tempo lungo. Il pubblico è cambiato: sono cambiate le posture, è diversa la concentrazione, non c’erano telefoni cellulari nel 1989, i musei avevano ancora qualcosa di desueto, di conservativo, l’architettura degli edifici, la sistemazione delle sale, in generale gli spazi, restavano ancora sullo sfondo. Oggi invece gli spazi sono un elemento prepotente.
In questo teatro dell’arte su cui ho lavorato per cinque anni, tra il 2015 e il 2019 ci sono tutti questi elementi: c’è la storia, ci sono le linee, c’è l’attesa, l’osservazione dei movimenti, spesso c’è lo spazio.
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Ma è come scommettere contro le opere. Si tratta di riportare al centro, come un evento irripetibile, un visitatore che non si somma agli spazi ma ora cambia le regole: un capovolgimento. Come se i musei non esistessero senza i visitatori, e di più: il museo è il visitatore, al di là delle opere.
D’altronde, per inciso, leggenda vuole che i musei di notte siano popolati di fantasmi, e questo perché gli spazi museali non sopportano l’assenza delle persone, e dunque che almeno siano i fantasmi a supplire a quelle assenze.
Spesso si ha la sensazione che la perpetua distrazione del pubblico non permetta più una vera connessione tra opera e visitatore: una “Sindrome di Stendhal” superata dalla modernità, ormai guarita, come guarirono con l’avvento della civiltà delle macchine i primi casi di isteria studiati da Freud. Eppure il visitatore è ignaro di essere diventato un protagonista. L’opera, il capolavoro artistico è diventata un pubblico che vuole nuovi attori sul palcoscenico del suo teatro. Un paradosso, un capovolgimento, in questo nostro tempo nuovo.
TESTI DI ROBERTO COTRONEO DENTRO LA MOSTRA
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Le sale di un museo prevedono un pubblico che guarda le opere, ma non un pubblico che osserva un pubblico. Eppure tra le prime cose di cui ho dovuto prendere atto, e che ha dato origine a questo lavoro, è che nel teatro dell'arte, la scena non è quella dell'opera ma del pubblico. Cinque anni di lavoro, decine di migliaia di fotografie e un’idea chiara: raccontare l’emozione dell’arte. Così c’è un museo che si fa palcoscenico, i visitatori diventano attori e un fotografo somma tutto questo in una intenzione fotografica.
L’ombra di un sacerdote in una sagrestia, una donna stilizzata a contenere la potenza di colori di Guttuso, una ragazza con un cappottino giallo davanti alla materia di Alberto Burri. E una scena hopperiana in una mostra di Hopper, il parlarsi sottovoce davanti all’orecchio di Anish Kapoor, un uomo che assomiglia a Joseph Beuys, come una evocazione. Ogni volta, dentro un museo accade qualcosa di imprevedibile. I visitatori si sommano alle opere, si raccontano all’arte, inconsapevolmente.
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Queste sono fotografie che aspetti, che sai da prima. Come si aspetta che una storia arrivi al momento chiave. Aspetti che un visitatore si presenti davanti a un’opera. Ti chiedi come lo farà, e in che modo si fermerà di fronte a un dipinto. Perché le posture cambiano di continuo. Quello stare fermi, quel guardare immobili mette il corpo in una sorta di attesa transitoria. Alle volte ci si ferma per poco, si prosegue. I colori contano, prendono un senso: l’oro, i rossi, i vecchi vetri, i controluce.
Il tempo dovrebbe essere sospeso, senza una misura. Ma ormai nei musei il tempo è fuori squadra. Gli spazi espositivi sono contaminati dal mondo esterno: significa leggere e scrivere messaggi, postare fotografie, in pratica distrarsi di continuo. I musei non sono più una zona franca. Il mondo di fuori entra nelle sale e interrompe la suggestione, la frammenta, la spezza in schegge che aggiungono riflessi e trasparenze. E toglie neutralità, contamina, aggiunge senso, rende tutto più sfuggente.
C’è una grande differenza tra musei di arte antica e moderna e musei di arte contemporanea. È una differenza religiosa. Di fronte alle opere antiche c’è l’omaggio, il rituale del riconoscimento, il rispetto. Di fronte all’arte contemporanea c’è un sistema della diffidenza. Il visitatore accetta l’opera, oppure la rifiuta, si impegna a capire o rinuncia. Tutto è sotto esame. Qualche volta c’è curiosità. Ma le opere si devono conquistare un’aura che non è affatto scontata. Come fossero sotto esame.
Noi nasciamo con un corredo di immagini all’interno del nostro cervello. È probabile che queste immagini, impresse in anni lontanissimi, abbiano a che fare con il nostro desiderio. I fotografi spesso creano immagini catturate per caso che rientrano in un progetto cognitivo di cui sappiamo poco. Per anni abbiamo creduto che la nostra mente si potesse svelare solo attraverso processi verbali. Ma c’è anche l’inconscio fotografico. Fermare il movimento dentro gli spazi è un’incompiutezza che amo perché sa di me molto più di quello che vorrei.
Alla fine l’opera cede il suo spazio, rinuncia al suo ruolo. Ernst H. Gombrich scriveva: «L’ombra che ci appare effimera e sfuggente?ha un’evidenza che non può essere spiegata con le leggi dell’ottica e si sottrae alla logica della percezione. Ma al tempo stesso affonda le sue radici nella leggenda e nel mito». Per questo torno di continuo a lavorare a questo progetto, come una tentazione irresistibile. Perché i musei, anche quelli più tradizionali, fermi dentro la loro storia, cambiano ogni giorno, si regalano al pubblico, con riconoscenza. Come un incanto inaspettato.
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