Roberto Barbolini per “Tutto Libri – La Stampa”
il libro essere avari
In un divertente spettacolo di qualche anno fa, Il banchiere errante, Moni Ovadia ripercorreva i secoli della diaspora ebraica a partire dal suo peccato originale: la raccolta di fondi per la costruzione del vitello d'oro, il feticcio adorato dal popolo mentre Mosè sul Sinai era alle prese con il Roveto Ardente.
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Idolatria? Macché. La vera colpa dei figli d'Israele, ironizzava Ovadia, fu quella di aver immobilizzato il capitale nella costruzione d'uno «stupido vitello». Perché il denaro è come il sangue, deve circolare liberamente e capillarmente in tutto il corpo sociale.
Al di là del tono satirico, è una morale della favola che si può applicare all'intera storia dell'Occidente dalla seconda metà del XII secolo in poi. Perché il denaro sarà anche sterco del demonio, come sosteneva Lutero, ma uno sterco molto speciale, che da Marco Polo e dai mercanti genovesi del Trecento ai banchieri Rothschild, dalla rivoluzione industriale con la nascita del capitalismo moderno fino all'era dei bitcoin, s'è rivelato un prodigioso concime per la civiltà europea.
E sarà anche vero che la ricchezza non dà la felicità, come già nell'antichità classica dimostrano gli esempi di Mida e di Creso, o la Bibbia si affanna a spiegarci tanto nel Levitico quanto nel Deuteronomio.
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Ma, per dirla con Woody Allen, essa «procura una sensazione così simile alla felicità, che è necessario uno specialista molto avanzato per capirne la differenza». Tale sensazione può però trasformarsi da bramosia in ossessione.
Su questa patologia indaga Gabriella Airaldi in Essere avari. Storia della febbre del possesso, edito da Marietti 1820: un saggio dal tono agile ma solidamente documentato, con un'ampiezza di sguardo a tutto campo.
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Specialista di storia mediterranea, la studiosa insegue dall'antichità fino ai nostri giorni la traccia che lega lo sviluppo economico e culturale dell'Europa al suo rovescio patologico, l'idolatria dell'accumulo fine a sé stesso: non soltanto una malattia dell'anima, dal momento che cupidigia e avarizia, due facce d'una stessa medaglia, possono facilmente trasformarsi in pandemia.
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Lo snodo cruciale è il passaggio dalle civiltà in cui il potere era basato sul possesso fondiario, come in Grecia e a Roma, o nell'età feudale, alla nascita d'una cultura mercantile nell'Italia dei Comuni e delle Repubbliche marinare.
Non basta insomma l'etica protestante di weberiana memoria a spiegare lo spirito del capitalismo, e tantomeno quella distorsione anamorfica della brama di possesso che va sotto il nome di avarizia.
È dal Bel Paese, grazie ai suoi banchieri e notai, ai navigatori, ai mercanti pronti a muovere verso le rotte più remote sospinti dall'«idea di quel metallo» così caro al Figaro rossiniano, che ha inizio l'inarrestabile affermazione dell'uomo d'affari capace d'investire liberamente il suo denaro: «Il capitalismo nasce in Italia» scrive Airaldi «e di lì parte la sua diffusione in Europa e nel mondo. In breve tempo il denaro assume un ruolo dominante, il volto della società muta e mutano le coordinate sulle quali si innestano vocaboli come "cupidigia" e "avarizia"».
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D'accordo, la grettezza è sempre esistita. Già Teofrasto (371-287 a.C.), in uno dei suoi Caratteri, ci dà il primo ritratto dell'Avaro: uno che «se alla moglie cadono tre centesimi, è capace di spostare i mobili, i letti e gli armadi, e di scrutare pure nella spazzatura».
Troviamo avari in Fedro come nell'Aulularia di Plauto (il suo Euclione ispirerà l'Arpagone di Molière). Neppure l'avvento del cristianesimo cambia le cose. «Voi non potete servire Dio e Mammona» ammoniscono Matteo e Luca. Per san Paolo «l'avidità del denaro () è la radice di tutti i mali».
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La tradizione cristiana guarda alla ricchezza con sospetto mescolato a bulimico pragmatismo: da un lato san Francesco che fa voto di povertà, dall'altro papa Leone X che, seppure allo scopo di costruire San Pietro, vende le indulgenze come ser Ciappelletto, l'usuraio boccaccesco che muore in odore di santità.
Per il Corano l'avarizia è una delle «malattie del cuore», ma per «un popolo mercante come quello arabo» osserva Airaldi «il denaro è il perno della vita». Sarà proprio la ricchezza di scambi commerciali con il mondo islamico, unita al successivo impulso delle grandi scoperte geografiche, a far nascere l'avidità moderna.
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Quella che unisce in un filo rosso l'avaro Scrooge dickensiano del Canto di Natale al suo quasi omonimo Uncle Scrooge McDuck, ossia Paperon de' Paperoni, con i suoi tuffi dal trampolino in un mare di dollari. Ma arriva fino al cinico Gordon Gekko del film Wall Street.
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«Ed è la storia» sottolinea amaramente l'autrice «di ciò che finanza virtuale e speculazione hanno contato nella crisi del 2007-2008 e la storia della criptovaluta». È l'ennesimo trionfo di Mammona, il demone tentatore della ricchezza. «Quando ero giovane credevo che la cosa più importante della vita fosse il denaro, ora che sono vecchio so che è vero»: così parlò Oscar Wilde. È davvero difficile non dargli ragione.
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